sabato 23 luglio 2011

La Farfalla e lo Tsunami

Guido Frizzoni, Porta Palazzo (Torino)

I
                                                              
Ho sentito un tuffo al cuore quando mi è stato recapitato per posta, sotto forma di libro, l'eco di qualcosa (ben piccola cosa, a dire il vero) che avevo fatto più di tre anni fa. Come se all'improvviso il paradosso del battito d'ali di farfalla che può generare, a chilometri di distanza, uno Tsunami si fosse materializzato tra le mie mani. Ecco la storia.

La farfalla. Agli inizi del 2008 ero stato invitato dagli amici della Società Fotografica Subalpina di Torino a tenere due conferenze sul linguaggio fotografico. Per una di queste conferenze-laboratorio (Esercitazione di costruzione visiva) avevo bisogno, per iniziare il lavoro con i fotografi, di materiali visivi di prima mano: puri (non ancora contaminati dalla regia dell'inquadraturae e da altre scelte tecniche o concettuali), il più possibile noti a tutti e facilmente condivisibili. Per questo mi ero raccomandato con gli organizzatori affinché i partecipanti - qualche giorno prima del nostro incontro - andassero in giro per Torino senza fotocamera, possibilmente nello stesso luogo (è stato scelto per tutti il mercato a Porta Palazzo), semplicemente per osservare, per guardare. In altre parolechiedevo di lasciare accadere le immagini davanti ai loro occhi e di esserne consapevoli, annotando sui loro taccuini qualcuno di questi accadimenti visivi. E così è stato.

Lo Tsunami. Guido Frizzoni era tra quei fotografi. Anche lui aveva accettato di prendersi cura del proprio sguardo eseguendo l'esercizio che, nelle mie intenzioni, era una piccola pratica di ecologia fotografica, di arricchimento sensoriale (o, come direbbe Marco Baliani, un allenamento allo stupore). Ma Guido Frizzoni non si è fermato lì, è andato molto più lontano: dell'esercizio ha estratto il midollo, lo ha coltivato, l'ha trasformato in progetto e in poetica fotografica. Ed è approdato a questo libro: Torino silenziosa.

II

Torino silenziosa è un libro fotografico denso, a più strati. Ad una prima lettura di superficie, appare come una serie di vedute in bianco e nero della città, organizzate intorno a dieci intinerari poetici tracciati dallo scrittore torinese Dario Voltolini (ma è vero anche il contrario: è il ritmo delle sequenze visive impaginate da Frizzoni che detta il tempo alla elegante prosa degli itinerari di Voltolini).

Ad un secondo livello, soprattutto per chi avesse un po' di abitudine nella frequentazione delle faccende di storia della fotografia, affiorano certe inquadrature e scorci dal sapore Atget. Fatto che, da un lato, documenta la consapevolezza linguistica di Frizzoni, dall'altro spalanca il vastissimo campo di riflessione intorno alle immagini latenti che rappresentano il substrato mnemonico e visivo cui i fotografi attingono (spesso inconsapevolmente) quando scattano o guardano. E' grazie all'humus di questa poetica "sommersa" che è possibile riconoscere, ad esempio, una statua fotografata più di mezzo secolo fa dal più francese dei fotografi (Atget, appunto)  


Eugène Atget
 in un'altra statua fotografata, con la stessa lentezza e attenzione, da Guido Frizzoni nel suo libro dedicato alla più francese delle città italiane.

Guido Frizzoni, Parco del Valentino




Circostanza che contribuisce a determinare un arricchimento di senso a queste immagini e che richiede, in chi legge, uno sguardo che sappia aprirsi un varco verso le profondità del tempo. Insomma, le immagni - come le parole - non sono neutre, perché anche in esse ritroviamo stratificazioni di senso e di storia con le quali dobbiamo, in termini di cultura visuale, fare i conti.

III 

"La macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina"
(Dorothea Lange)

Ma c'è in profondità un terzo livello, cui si accede concentrandosi sullo strumento che ha dato materialità alle immagini. Qui è possibile scoprire che accanto al soggetto conclamato del libro (Torino) risuonano altri due temi, sopra i quali il tema principale poggia le proprie fondamenta: lo Sguardo e il Tempo. Le fotografie del libro sono state realizzate con una macchina a foro stenopeico, "una macchina fotografica priva di obiettivo, al posto del quale si trova un buco piccolissimo [...] di due o tre decimi di millimetro", come riassume Guido Frizzoni nella Nota Tecnica che chiude il volume. Una fotocamera senza lenti, che non consente di traguardare e dai tempi di ripresa molto lunghi: "da due, tre secondi fino a dieci o quindici minuti", ma che "strappando via la sovrastruttura tecnologica" pone decisamento al centro dell'atto fotografico lo sguardo, e il tempo che gli è necessario per realizzarsi.

 In Torino silenziosa tempo e sguardo abbandonano l’attimo del momento decisivo per espandersi nella durata, in direzioni molteplici: senza limiti e senza bordi precostituiti. Le immagini di Frizzoni sono come estuari in cui confluiscono spinte diverse: lo sguardo e il tempo che precedono la ripresa (l’osservazione della città e la scelta del luogo); lo sguardo e il tempo della fotocamera (il tempo lungo della registrazione); lo sguardo e il tempo dell’attesa (quando il  fotografo, con sguardo parallelo allo strumento, attende che l’immagine si sia compiuta); il tempo errante degli sguardi testuali di Voltolini (la cui voce risuona come una colonna sonora emotiva durante la visione delle fotografie). Dunque, una scelta tecnica che, in realtà, si rivela essere una scelta di poetica, che ha come conseguenza quella di lasciare accadere le immagini, come una sorta di “grado zero” dello sguardo. Ed è affascinante questa coesistenza di sguardi della fotocamera e del fotografo, che condividono – nei lunghi minuti dell’esposizione – lo stesso tempo di visione, liberi – come scrive ancora Frizzoni – da “filtri e […] pratiche tecniche che annebbiano la mente, ovvero la vista”.

IV
Un’ultima annotazione in margine ai testi di Voltolini. Quello che mi ha colpito è stato l’uso, poco frequente in narrativa, della seconda persona come punto vista. Il Tu poetico, declinato da Voltolini al femminile (ma rivolto, credo, ad ogni lettore): “Tu partirai (sei già partita) dal centro allargato che di piazza in piazza conduce verso l’esterno della città”, trasforma il testo in un dialogo diretto con chi guarda. E quando sono arrivato a questa frase: “Non saprai chi sia a osservarti, penserai che sia la città stessa, così come tu guardi lei, lei guarda te”,  mi sono chiesto quale è il punto di vista delle immagini di Frizzoni. Lì ho capito che anche le fotografie di Torino silenziosa usano il Tu, come se ognuna di esse dicesse “Guardami. Guarda ciò che accade nel tempo della mia esposizione”. Potrà sembrare extra-vagante questa osservazione, ma essermi domandato quale è il punto di vista della rappresentazione in fotografia è una tra le suggestioni che ho raccolto in questo libro e che mi ripropongo, in futuro, di approfondire. Per abitudine crediamo che la fotografia oscilli tra rappresentazioni formulate alla prima persona (“Io, fotografo, ti mostro che cosa ho visto”) e alla terza persona (tutti gli esempi di fotografia “oggettiva” o la fotografia degli albori, quando era percepita come se fosse la realtà stessa – per il tramite della luce – ad autoritrarsi). La pratica stenopeica, invece, vivendo nella durata lunga della sua ripresa, sembra coinvolgere nella sua visione non solo il fotografo, ma anche lo spettatore: Tu.





1 commento:

Prato Andrea Tomas ha detto...

Grande Enrico, sempre fonte di riflessione ed ispirazione. non ami i complimenti lo so, ma non mi stanco di ribadirli personalmente.