mercoledì 17 agosto 2011

Sguardo Nadar

F. Nadar, Baudelaire (1855)
Bisognerebbe guardare le fotografie di Nadar con l'ausilio di quel formidabile ‘testo a fronte’ che sono i ricordi contenuti in Quando ero fotografo, vera e propria guida per penetrare la profondità delle sue immagini. E non tanto perché – tra i vari ricordi – Nadar racconta e descrive le catacombe o le fogne di Parigi (che per primo ha fotografato e, sempre per primo, con luce artificiale), ma per l’aiuto che queste memorie offrono alla comprensione della sensibilità dello sguardo di cui Nadar si è servito per realizzare i suoi famosi ritratti.

Se dal punto di vista formale, Nadar ritrae i suoi soggetti (scrittori, poeti, pittori, attrici, musicisti: Il Panthéon Nadar) su sfondi neutri, senza ricorrere alla messa in scena di fondali dal sapore pittorico ancora utilizzati dai suoi colleghi, non per questo il suo sguardo è banale o passivo. Ecco alcuni esempi indicativi della ricchezza con cui Nadar leggeva i volti. Il primo è il ritratto verbale del fotografo-scultore Adam-Salomon, tratto dal capitolo dedicato a “I primitivi della fotografia”, una sorta di storia privata della fotografia che lo ha preceduto.

… quest’ometto macilento, di aspetto inquietante, persino un po’ sinistro, con i suoi occhietti perduti nel fondo degli zigomi ossuti, rauco, con voce in falsetto come un gallo castrato …”  

Un altro ritratto interessante è quello della moglie di un farmacista omicida (“Fotografia omicida”):

… bruna, pallida, falsa magra, l’orbita bistrata, stanca anzitempo di tutto e di nulla, esala dalla punta dei piedi ai capelli l’implacabile, immortale e mortale noia”.

o quello del marito (l’assassino):

L’intelligenza limitata e oscura, la mediocrità dell’anima si leggono su quella sua bassa fronte, dove la folta zazzera scende in avanti fino alle fitte sopracciglia: fronte di acefalo, nel miglior caso di mandrillo, che gli offre a stento lo spazio per una magra idea alla volta. Gli occhietti incavati e iniettati di sangue sfuggono sotto la boscaglia e, per il bestiale profilo, l’analogia viscerale fa subito pensare alla taciturna malinconia del tasso”.

Questo campione di esempi credo sia sufficiente a dimostrare l’abbondanza di particolari che il fotografo riesce a raccogliere con l’osservazione di volti e persone: è questa la ricchezza visiva che Nadar trasferisce nelle sue fotografie, senza alcun bisogno di scenografie fasulle. Ma come guardava Nadar? Ancora una volta le memorie di Quando ero fotografo, oltre a documentare la sua curiosità senza limiti, illuminano la sua capacità di leggere le cose in profondità, di saper vedere – come fosse davanti ad un iceberg - la parte sommersa della vita.

Nadar sapeva guardare la realtà fisica con estrema acutezza e precisione (“l’orbita bistrata”; “gli occhi incavati e iniettati di sangue”), ma era capace di leggerla anche oltre le apparenze. Nadar guardava per aggettivi: “stanca anzitempo di tutto e di nulla”; “ometto macilento, di aspetto inquietante”; “occhietti perduti nel fondo degli zigomi ossuti”. Nadar guardava per astrazioni e analogie: “con voce in falsetto come un gallo castrato”; “esala dalla punta dei piedi ai capelli l’implacabile […] noia”; “il bestiale profilo […] fa subito pensare alla taciturna malinconia del tasso”. Nadar, in altre parole (le sue), guardava per analogie viscerali, che diventano il substrato delle sue immagini, dei suoi ritratti. Analogie viscerali. A prima vista questo binomio si presenta come un ossimoro, l’opposizione di contrari: l’astrazione (analogia) e la concretezza della materia (viscere). Eppure il trucco è tutto lì: saper vedere l’invisibile nel visibile. Ecco come guardava Nadar, la sua particolare visione (e immaginazione): una “immaginazione concreta”, come la definisce il curatore del volume Michele Rago. Che poi, a ben guardare, è – o dovrebbe essere – la qualità, la dote che ogni fotografo dovrebbe possedere.        


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