domenica 23 dicembre 2012

Contro l'immaginario abusato


In un auto-commento alle sue esplorazioni fotografiche di Roma, Gabriele Basilico, in  Leggere le fotografie in dodici lezioni, Milano, Rizzoli 2012, scrive: Raccontare il fiume [Tevere] come se fosse separato dalla città è forse un po’ come nascondere quei luoghi storici e monumentali che la rendono [Roma] immediatamente riconoscibile, e quindi è come sottrarre la città al suo immaginario arcinoto. E il sottotitolo di questa IX lezione, da cui è tratta la citazione, contiene un aggettivo che spiega ancora meglio il senso della frase: Sottrarre la città a un immaginario abusato.

Cosa significa? Provo a rispondere analizzando il metodo di lavoro adottato in questa occasione da Gabriele Basilico. Il fotografo milanese, nel 2007, era stato invitato da FotoGrafia – Festival Internazionale della Fotografia di Roma, a proporre la sua lettura della città[1]. Cosa ha fatto Basilico? Ha operato da subito uno spiazzamento del punto di osservazione: invece di esplorare il tessuto urbano da terra, Basilico ha scelto il Tevere (e i suoi ponti) come “strada fluviale” che attraversa la città, linea guida del suo itinerario visivo (ho considerato il fiume come vettore che intercetta il tessuto della città). In questo modo ha preso forma un secondo spiazzamento: il fiume è diventato il soggetto dell’esplorazione (…) chiedendo sempre più attenzione fino a escludere la città, confinandone l’immagine dietro gli argini. In altre parole: il fiume ha messo in secondo piano la città e i suoi monumenti, cioè ha tolto la scena a tutti gli elementi dell’immaginario che concorrono al riconoscimento facile ed immediato (abusato) di Roma.    

Dunque, un modo per sottrarre il soggetto agli automatismi percettivi messi in moto da un immaginario ‘abusato’ è quello di spingere sullo sfondo, “dietro gli argini”, gli elementi caratteristici con i quali noi riconosciamo, d’abitudine, un soggetto. Ne è un classico esempio questa foto di Man Ray

Man Ray


dove i chiodi in primo piano spingono sullo sfondo il peso (visuale e percettivo) del ferro da stiro e delle sue qualità abituali. Con quale risultato? In questa configurazione l’immagine lascia emergere un oggetto “altro”, un oggetto che l’immaginario non riconosce immediatamente perché collocato fuori da quella “zona di comfort” percettiva che l’abitudine costruisce quotidianamente per lo sguardo e per la memoria.

Ma c’è un altro elemento, suggerito dalla lezione di Basilico, che vale la pena indagare. E’ contenuto nel verbo nascondere: nascondere quei luoghi storici e monumentali che rendono [Roma] immediatamente riconoscibile. In questo ‘nascondere’ si colloca un secondo modo per sottrarre il soggetto agli automatismi della visione. E’, forse, un modo più radicale di spiazzamento perché, rispetto al primo (l’allontanamento sullo sfondo delle caratteristiche “abusate”), ‘nascondere’ il soggetto scatena – come direbbe Arnheim – una “forza psicologica” più potente, che richiede allo spettatore un contributo, in termini di interpretazione/decifrazione del soggetto, che non può più essere solo di registrazione meccanica, ma pretende un preciso lavoro di svelamento (= togliere il velo) e di riscoperta del soggetto. E’ quanto avviene, ad esempio, in molte immagini di Franco Fontana

Franco Fontana


dove il paesaggio è il soggetto “nascosto” dal ritmo delle forme e delle campiture di colore. O nei ritratti-mosaico di Maurizio Galimberti

Maurizio Galimberti


Qui, il ritratto frantumato in schegge dinamiche (ogni polaroid è una diversa prospettiva dello sguardo), nasconde il volto del soggetto all’immediatezza percettiva del riconoscimento e invita il al lettore a ritrovare l’unità nascosta del volto.

In tutti questi casi, il denominatore comune delle immagini è la rottura di uno stato di quiete della visione per ingaggiare la ricerca di un nuovo equilibrio visuale e, con esso, un nuovo significato delle cose. Credo sia rinchiuso qui il senso di una frase di Rudolf Arnheim (Arte e percezione visiva) che porto, da tempo, sempre con me: la visione è una maniera creativa di afferrare la realtà. Come la fotografia.


[1] Lavoro confluito nel volume Gabriele Basilico. Roma 2007, a cura di Angela Madesani, realizzato come catalogo dell’omonima mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma curata da Marco Delogu.

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