domenica 4 settembre 2011

Casting, identikt, agnizioni e un pizzico di Platone


I

Tempo fa avevo tenuto, per i fotografi di Oltrefoto, un laboratorio dedicato al volto, i cui risultati – dopo un anno di lavoro – erano sfociati nella mostra In cerca di Achab. L’idea era molto semplice: partire dalle riflessioni di Tullio Pericoli sul ritratto (L'anima del volto) e trasferirle, opportunamente rielaborate, in fotografia. Lo scopo era interrompere automatismi, luoghi comuni e ovvietà che circondano il ritratto nella prassi fotografica: una ecologia dello sguardo fotografico. Una delle tappe del percorso, il suo momento topico, doveva essere il riconoscimento delle storie sui volti, la capacità di leggervi i segni del vissuto, della fatica, del dolore. O, per usare le parole di Pericoli cui mi ero ispirato: “E allora è, il volto,  un “luogo” narrativo repentino, che rivela e lascia immaginare il romanzo di una vita”.  Una cosa così. Ma arrivati a questo punto il lavoro si era bloccato: un vicolo cieco. Mentre nella prima fase di scomposizione del volto nei suoi elementi di base (linee, curve, rapporti: la morfologia) i fotografi erano del tutto a loro agio, una volti posti davanti ai volti per decifrarne i segni, si erano inceppati: niente, ogni volto restava ottuso, muto. Era subentrata una sordità davanti all’immagine: le linee restavano linee e non si trasformavano in tracce di significato potenziale. Una sordità che impediva di riconoscere il racconto depositato in una ruga, l’urlo di una smorfia, l’ambiguità di un sorriso o la stanchezza di occhi semichiusi. Ero sconfortato. Che fare?

II

Davanti ad un problema apparentemente insolubile, una possibile soluzione è cambiare prospettiva e porre le domande in un altro modo. In pratica, la questione era: abbiamo un volto: come facciamo a risalire, a ritrovare o immaginare la sua storia? Ho provato a ribaltare la domanda: se io offrissi ai fotografi una storia, non sarà la storia stessa a guidarli nella loro ricerca del volto adatto a quella storia? Esattamente come avviene per ogni casting: la ricerca di un volto da rivestire con una storia, per essere d’appoggio all’immaginazione e rendere concreta, visibile quella narrazione. Per fare questo avevo scelto il personaggio di un romanzo (Moby Dick, di Melville) conosciuto da tutti: il Capitano Achab e la sua ossessione per la balena bianca. Avevo fornito ai fotografi la descrizione di Achab, non quando appare per la prima volta  sul ponte del Pequod (e sulla scena del romanzo: quindi, non il corpo di Achab, con la sua lugubre gamba artificiale bianca che, da sola, avrebbe dirottato l’immaginazione dei fotografi chissà dove), ma il solo viso: scorto sottocoperta, nella penombra della cabina, mentre traccia ipotesi di rotte sulle carte nautiche dove Achab annotava, in modo maniacale, tutti gli avvistamenti di Moby Dick. Avevo fornito, nella traduzione di Cesare Pavese, alcune coordinate essenziali del volto, suggerendo un nesso visivo  tra le rughe del viso e le rotte tracciate con precisione sulle carte; avevo dato alcune indicazioni sulla temperatura dell’illuminazione: la luce calda di una lanterna, incerta e oscillante al ritmo del rollio della baleniera, dunque un volto dove convivevano alternandosi penombra e luce. Tutto qui. Potrà, magari, sembrare poco, tuttavia, grazie a questi pochi tratti, la questione era diventata: abbiamo una storia, la storia di un’ossessione così intensa e devastante da depositarsi sul volto di uomo che non ha altro scopo nella vita se non quello di ritrovarsi di fronte al suo nemico per affrontarlo. Ora dobbiamo cercare questo volto, che porta su di sé i segni di una ossessione, non importa quale, così intensa e profonda da lasciare tracce nitide ed eloquenti sul viso. Per questo primo esperimento la scelta era caduta, tra varie possibilità, sul ritratto dello scultore Mario Merz.



Oggi, forse, sarei più propenso ad “affidare” il volto di Achab al ritratto di Giuseppe Ungaretti,


se non altro per le sue origini mediterranee (Ungaretti è nato ad Alessandria d’Egitto), che sanno di dune e di sabbia, di risacche marine ritmate e che mi sembra di avvertire sul quel volto sofferente, in continua lotta con le parole per tentare di descrivere il dolore del mondo e della vita. Ad ogni modo, la cosa aveva funzionato e i fotografi, dopo questo primo esperimento, si erano sbloccati, erano usciti da quel vicolo cieco in cui si erano cacciati per ripartire alla ricerca - chi tra i barboni della Centrale di Milano, chi tra i senzatetto, chi tra i contadini (l’ossessione della terra) - di un volto che fosse l’equivalente visivo di un’ossessione. Erano partiti, insomma, in cerca di Achab.

III

Questo, per così dire, l’antefatto. Poi, tra le letture di questa estate, mi è capitato di imbattermi in un altro personaggio interessante: il regista cinematografico austriaco Friedrich Bergmann, rinvenuto in La violetta del Prater di Christopher Isherwood. Per chi non lo conoscesse, La violetta del Prater è un piccolo romanzo dove un personaggio di nome Christopher Isherwood (con lo stesso nome dell’autore), di professione scrittore (proprio così), racconta, in qualità di assistente sceneggiatore, di come un film (intitolato La violetta del Prater) nasce e si trasforma, al fianco, appunto, di Friedrich Bergmann. (En passant: non esiste un Bergmann regista, quanto meno di nome Friedrich). Non so perché, ma è stata subito attrazione verso questo personaggio di finzione messo in scena accanto all’alter ego di uno scrittore reale. Un richiamo irrinunciabile: dovevo trovare un volto, dare un aspetto visivo a questo ritratto verbale: “La sua testa magnifica, e massiccia come una scultura di granito; la testa di un imperatore romano, con neri antichi occhi asiatici. (…) Con la coda dell’occhio osservai il mento fermo, rilevato, la linea arcigna, compressa della bocca, i due solchi amari che tendevano a chiudere come fra parentesi il naso imperioso (…). Era la faccia di un imperatore, ma gli occhi erano i neri occhi beffardi del suo schiavo”. In un primo momento, d’istinto, avevo pensato al volto di Peter Ustinov, ma la scelta non mi convinceva, credo per qualche alone residuo che ristagnava nella mia memoria: Ustinov nei panni di Hercule Poirot in Assassinio sull’Orient Express.


Ho provato a cercare altri volti, tra gli amici, per strada: niente, c’era sempre qualcosa di incompiuto in tutti i loro volti, qualcosa che il mio telemetro mentale non riusciva a mettere a fuoco. L’immagine letteraria e quella mentale non combaciavano. Quello che non mi riusciva di restituire era la doppia natura di quella faccia: imperatore e schiavo. Avevo bisogno di un’altra soluzione, di un’altra strada da percorrere. Mi sentivo come un ispettore di polizia che deve ricostruire un volto sulla base di indizi raccontati dai testimoni: dovevo procedere per frammenti.

I capelli. Avevo pensato in un primo momento alla parrucca di Harpo Marx:



avrebbe, si, reso l’idea marmorea e statuaria della descrizione fatta da Isherwood, ma c’era una scena del romanzo in cui mi ero già visualizzato i capelli di Bergmann: “Un istante dopo la sua testa scarmigliata spuntava da una finestra della scena, come una marionetta infuriata”. No, Harpo Marx non andava bene e così la scelta è caduta sui capelli di Eugenio Allegri,



capelli senza languore, aerei, elettrizzati.  

Gli occhi. Per quelli, fin da subito, non ho avuto dubbi: erano gli occhi del ritratto di Baudelaire fatto da Nadar.



Neri, d’un nero profondo, senza punti luce riflessi nelle pupille: gli occhi penetranti e carichi di energia di un visionario. E sempre tra le fotografie di Nadar avevo individuato anche i solchi amari che tendevano a chiudere come fra parentesi il naso del ritratto di Delacroix  per le guance.



La bocca. Restava la bocca, dalla linea arcigna e compressa, ma al tempo stesso bocca di un incantatore, di un affabulatore geniale che sapeva ipnotizzare l’uditorio, rendendo vivo e visibile il proprio racconto: “ [Bergmann] cominciò a descrivere la sequenza d’apertura. Fu una cosa sbalorditiva. Tutto divenne vivo. Gli alberi cominciarono a tremare alla brezza (…), si vedevano le giostre roteare. E la gente parlava. Bergmann improvvisava le conversazioni, parte in tedesco, parte in un inglese inverosimile; e tutto era vivo, reale. I suoi occhi scintillavano, i suoi gesti diventavano sempre più esagerati, s’atteggiava come un mimo, come un clown. Avevo bisogno di una bocca che fosse al tempo stesso narrazione, corpo, gesto, visione: per questo mi sono ricordato della storia di Michele Kohlhaas, dei suoi cavalli, delle ingiustizie subite; mi sono ricordato della storia ascoltata e vista attraverso la bocca di Marco Baliani.  


A questo punto tutti i pezzi erano al loro posto: il casting (o l’identikit) era terminato. Probabilmente penserete che questo volto-mosaico è una mostruosa incongruenza. In realtà credo non sia più mostruoso di quei disegni segnaletici che escono dalle questure eseguiti, sulla base di vaghe testimonianze, pescando gli elementi di base da un campionario prestabilito di possibilità; o non sia più mostruoso delle descrizioni che facciamo dei bambini quando sentenziamo: ”Ha gli occhi e il naso di suo padre, ma la bocca è tutta della mamma”. In altre parole, avevo rinunciato al compromesso di ricercare un volto unico per “montare” un volto meno approssimativo e più aderente all’immagine interna che mi ero fatto di Bergmann.

IV

Vi è mai capitato di vedere arrivare, in carne ed ossa, una persona che conoscevate solo attraverso i racconti degli altri? C’è un momento di sospensione, di “silenzio visivo” in cui l’immagine interna (l’immagine mentale che ci eravamo fatti) ammutolisce, le ipotesi si sfaldano e inizia la ricerca di un’altra messa a fuoco sull’immagine esterna. Una messa a fuoco nuova, più precisa, che cerca conferme o misura differenze rispetto al modello originario. Questo genere di apparizioni funziona, un po’, come le agnizioni dei romanzi e hanno la forza di un vero e proprio colpo di scena. E’ più o meno quello che ho provato scoprendo il vero volto di Friedrich Bergmann, il vero volto di un personaggio d’invenzione. Devo questa contradditoria agnizione a Tullio Kezich, che in un articolo del 1995 (Corriere della Sera, 28 luglio 1995), rivelava il vero nome (e  volto) dell’uomo che ispirò C. Isherwood: il commediografo, attore, regista viennese Berthold Viertel. Superato il momento di sbandamento iniziale, ciò che mi ha affascinato (e che certo meriterà riflessioni più accurate) è stato il mistero che da un lato avvolge il rapporto (creativo) tra il ritratto di Isherwood e l’originale e, dall’altro, quello tra il mio mosaico-ricostruzione con il modello letterario.


Berthold Viertel

In entrambi i casi l’invenzione del volto ha utilizzato materiali più mentali che visivi, plasmando un disegno che ha, nei confronti dell’originale, solo un debito marginale: quasi un pretesto. In questo modo siamo finiti dritti al cuore dell’immaginazione, di quel lavoro oscuro che permette la metamorfosi della realtà in rappresentazione. Un vero e proprio groviglio. Per Isherwood, ad esempio, è stata l’immagine-metafora della scultura a prevalere sul volto reale (quello noto a Isherwood di Berthold Viertel) e determinare, così, il disegno complessivo. Per il mio identikit, invece, è stata la descrizione verbale di Isherwood ad agire come stimolo ai miei ricordi e conoscenze visuali che hanno agito (in assenza di un volto reale di riferimento) come principi costruttivi del mio ritratto. Non so, ma ho come l’impressione che sia in un caso (il creatore) sia nell’altro (il fruitore) ci siamo trovati a leggere qualcosa (Isherwood: il volto di Viertel; io: la descrizione del volto di Bergmann, un’invenzione: qualcosa che era e non era Viertel) in modo indiretto, come attraverso uno stampo.

E alla fine, anche se in forma diversa, è la Grotta di Platone che ritorna: noi stiamo davanti alle ombre degli oggetti e delle persone proiettate dal fuoco sulle pareti della caverna in cui siamo prigionieri; queste ombre, con il loro carico di imprecisione, sono tutto quello che riusciamo a vedere e capire del mondo, la cui vera sembianza (come il ritratto di Viertel) ci sfugge.  

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