lunedì 16 settembre 2013

Primavera di luce. Renato Begnoni: perché sono diventato fotografo

Ho conosciuto Renato Begnoni verso la fine degli anni Novanta, per una sua mostra a Pavia. Le sue immagini mi colpiscono e nel Duemila, per una mostra collettiva sulle violenze, alla Triennale di Milano, gli chiedo di illustrare la violenza del dolore. Dopo di che, come accade nella vita, ci siamo persi di vista. Ho comunque seguito da lontano il suo lavoro e, negli anni , le sue opere si sono fatte via via più ricche, più dense. Oggi sono felice che abbia voluto raccontarmi la sua storia e il suo incontro con la fotografia o, come la definisce in modo poetico Renato, il suo incontro con la sua primavera di luce.         



Il muro amico (1988) – cm 50x50 stampa a colori – Tiratura: pezzo unico - Collezione privata

Quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad abbracciare la fotografia?
Ho iniziato ad amare l'arte fotografica fin da ragazzo. Mi emozionava poter raccontare per immagini  quello che  nasceva dentro di me, dialogare con me stesso, rimuovere questa mia timidezza. Poter fissare emozioni, progettare pensieri, vivere con questa magia contrastata dalla luce e dal buio. L’amore per l'arte in generale mi aveva suggerito che la fotografia poteva diventare una cosa importante per me. E così é stato: un linguaggio,  uno strumento fondamentale per suggerire nuove visioni del contemporaneo e dialogare con l'esterno.

Quando e dove, se lo ricordi, è successo che ti sei detto: « Io non posso essere altro che fotografo»?
Giovanissimo, avevo 16 anni. Dal mio paese natale, Villafranca di Verona, sono andato  in treno a  Milano a vedere  le  mostre di Irving Penn, Cartier Bresson e Diane Arbus. Sono rimasto letteralmente folgorato dalle fotografie, dalla loro bellezza, dalla vita raccontata in un'immagine. Ero “lontano” da questi personaggi, ma mi sentivo straordinariamente vicino e mi interrogavo ogni secondo su ciò che vedevo.

E’ stata una fascinazione emotiva, d’istinto, o era già un’attrazione intellettuale, estetica?
All'inizio ho cercato di studiare e seguire grandi autori in cui l’aspetto formale era, in  apparenza, un elemento preponderante: Fontana, Avedon, Mapplethorpe, Adams. Poi il mio interesse si è spostato su autori meno conosciuti, ma più complessi, enigmatici, intriganti: Gioli, Witkin, Weegee.

A quale incontro devi la tua passione iniziale?
Per questo fatale incontro parto sempre da lontano: frequentavo ancora le scuole medie e mia madre mi aveva regalato una Rolleiflex 6x6. Non ti dico l'emozione! Mi tremavano le mani nel vederla e il cuore batteva a mille! Per alcuni anni ho tenuto la macchina fotografica sul comodino in campagna e mi addormentavo guardando questo strumento come un amore impossibile. Poi, con i miei pochi risparmi, ho iniziato ad acquistare le prime riviste di fotografia: Progresso Fotografico, Photo .. E i primi libri di fotografia: i testi di I. Zannier, J.C. Lemagny, A. Gilardi, R.Valtorta, S. Sontag e molti altri ancora. E devo molto alle mostre che ho visto; ai curatori; alla mia prima borsa di studio della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, vinta nel 1985; ai luoghi e alle persone che ho incontrato per strada. Un ricordo particolare a Giuliana Scimè per aver valorizzato, all'inizio della mia attività artistica, le mie fotografie (1985).

Sulle cime della memoria (1995) – cm 60x80 stampa a colori – Tiratura: pezzo unico - collezione privata


Hai avuto, nella tua genealogia fotografica personale, esempi di fotografi in casa, tra i parenti o gli amici, oppure sei entrato nel mondo della fotografia da solo, seguendo una strada tutta tua?
No, nessuno in famiglia fotografava. Anzi, ero considerato anomalo nell'ambiente familiare. Ero visto dai parenti e in paese come un diverso, un fannullone. Difficile vivere e raccontare a loro che stava nascendo dentro di me una primavera di luce.

Quali sono state le prime immagini che hai scattato? Le conservi ancora?
Certamente. Sono ritratti in bianco e nero di una famiglia di contadini:il marito che fuma il sigaro e la signora che si pettina al mattino, fuori nel cortile. Poi un campo nomadi e mio nipote Cristiano seduto su un mezzo agricolo (1972).

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato per la prima volta il mondo attraverso un mirino?
Un gioco meraviglioso, un luna park, dove la curiosità nel vedere l'immagine all'interno del mirino mi accompagnava in un mondo tutto particolare, da scoprire giorno dopo giorno. Ero felice, come un bambino, di scoprire in ogni attimo una nuova finestra aperta al mondo.

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato le prime immagini scattate da te? O cosa hai provato quando le hai viste affiorare in camera oscura?
Mi sembrava una scatola magica, un parto continuo di nuove creature venute alla luce. Sicuramente un momento particolare. Entravo in camera oscura e mi isolavo dal mondo per intere giornate. Una maternità con la luce rossa.

Quando hai capito che la tua passione iniziale si era trasformata in una necessità, vale a dire: quando la fotografia non è più stata solo un desiderio, ma è diventata un linguaggio?  
Mi ritengo fortunato. L'unica cosa che ho capito da subito è stato vedere una fotografia nascere dentro di me, sentire un ‘autore’ , interrogarmi ogni giorno perché viviamo. Vedere con gli occhi gonfi di dolore e pieni di gioia. La ricchezza degli occhi che cercano di vedere oltre il "giardino fiorito".

Passione 2 (2000) – cm 60x80 cibachrome – Tiratura: pezzo unico


Quale è stata la tua formazione, il tuo percorso di crescita (studi, maestri, immagini, esperienze) che ti hanno condotto dalle prime immagini al fotografo che sei oggi ?
Ho iniziato a lavorare come apprendista  nello studio fotografico FP di Verona, nel settore della pubblicità' e del  ritratto, poi design e architettura (1974). Molti sono gli autori che amo, F.Woodman, L.Ghirri, D.Arbus, M.Giacomelli, D.Michals, Man Ray, G. Guidi, N. Migliori …

Che cosa hai scoperto grazie alla fotografia?  Che cosa ti ha dato?
Mi ha dato la possibilità di raccontare emozioni, di suggerire un nuovo vedere, di aumentare il dubbio, il senso di libertà e di ascolto. Mi ha dato la possibilità di parlare di dolore, di fame, di amore, di amicizia. Il mio modo di portare solidarietà.

Giulio (2008) – cm 60x80 carta colore – Tiratura: pezzo unico


E adesso, dove ti sta portando la fotografia? Quali progetti per il futuro?
Poter occupare la mente in nuovi sogni da vivere con gli altri. Partecipare a temi come l'identità, la diversità',  il nostro Io, la nascita  e la morte; essere un termometro del nostro tempo. Creare nuove opere per un'esigenza quotidiana dove la certezza non esiste. Il futuro? Dopo la perdita di mia madre ho ripreso a lavorare e spero di poter realizzare una mostra significativa.

I tuoi lavori fotografici sono molto “pensati”. In che modo avviene il processo di trasformazione dell’idea in immagine?
Lavoro per un'immagine che deve interrogare, proiettare, segnare sempre nuove emozioni. Un’immagine che deve seguire un progetto di vita: la centralità dell'esistere, dove le cose, i luoghi e le persone tornano a essere protagoniste del nostro sentire. Fare strada, "lavorare molto", con determinazione, umiltà, curiosità e amore. Perché la luce, il vento, l'acqua e il fuoco ci aiutino a capire cosa dobbiamo fotografare. Lavoro per un'opera che racconti non solo quello che c'è stato, ma quello che ci può capitare: una non foto.

Respiro l’asfalto (2013) – cm 52x75 carta cotone hp smooth fine art – Tiratura: 1/3 - inedito


Renato Begnoni

domenica 3 febbraio 2013

Massimiliano Orlandoni. Perché sono diventato fotografo


Ho conosciuto Massimiliano Orlandoni nel 1998, a Pavia, in occasione di un’asta di fotografia cui era stato invitato a partecipare con alcuni suoi lavori. Da allora siamo amici e, sebbene la distanza non agevoli le frequentazioni (lui marchigiano, io lombardo), non abbiamo mai interrotto il legame nato in quel lontano dicembre. Anzi, proprio la distanza rende più intensi gli incontri, le telefonate o gli scambi epistolari e alimenta sempre, senza il minimo intralcio, la mia sorpresa ogni volta che scopro un nuovo lavoro di Massimiliano. Oggi sono felicissimo di ospitare il suo racconto e di condividere la conoscenza di questo artista poliedrico, vulcanico e generoso, cui non è mancato il coraggio, grazie alla fotografia, di reinventare la sua vita.      


Dalla serie Il diavolo sulle colline



Quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad abbracciare la fotografia?
Un viaggio in Turchia con la moto, nel 1990. Non avendo allora una macchina fotografica, la ottenni in prestito dal fotografo del paese. Viaggiando on the road con tenda e sacco a pelo, avevo molte attenzioni nei suoi confronti, al punto che ci dormivo letteralmente insieme, appoggiata al mio fianco. Al ritorno, dopo una tale intimità, il legame rimase indissolubile e l’acquistai direttamente ad un prezzo di favore. Per tutto il viaggio era diventata il mio taccuino personale: con la fotografia avevo scoperto la possibilità di poter interagire con quei luoghi in assoluta libertà proprio come era il mio stile di viaggiare.

Quando è successo che ti sei detto: «Io non posso essere altro che fotografo?»
Negli anni successivi e sempre in conseguenza di viaggi, intrapresi l’altra metà del mio percorso fotografico: quello della camera oscura. Esattamente nel 1992, un amico mi regalò l’intero corso (e tutto il necessario per la creazione di una camera oscura) che lui aveva acquistato, ma mai usato, tramite la Scuola Radio Elettra. Al ritorno da un viaggio nell’Ovest degli Stati Uniti mi misi subito al lavoro per creare delle stampe. Credo proprio che in quel momento sia nata in me la vera coscienza fotografica, la responsabilità, la vastità di orizzonti che la camera oscura dava allo scatto iniziale. Notte dopo notte, completamente da autodidatta, con una dedizione tale che non potevo essere altro che un fotografo.

E’ stata una fascinazione emotiva, d’istinto o era già un’attrazione intellettuale, estetica?
Ho pensato a questo diverse volte e nel tempo ho elaborato una sola risposta: entrambe. Sì, di sicuro il fascino e l’emozione sono state artefici del mio primo approccio. Poi, più mi addentravo nella materia ed approfondivo il mio linguaggio personale, più la fotografia aveva per me una forte spinta intellettuale, intima, creativa e si contrapponeva perfettamente alla mia condizione di allora in cui facevo il ragioniere. Aggiungo che sono un esteta per natura, con un’anima sempre protesa verso la spiritualità, verso una cultura visiva e poetica della quale la Fotografia, quella sincera, ne è la grande portavoce.

A quale incontro devi la tua passione iniziale? Con una persona, un fotografo, un’immagine, una mostra, un libro, un luogo, con il Caso?
Più che la passione iniziale, per me è stata fondamentale la successiva maturazione, la crescita mistica all’interno di un percorso che man a mano si stava delineando. E in questo devo dare merito alla relazione avuta negli anni, dal 1994 fino alla sua morte, con Mario Giacomelli. La sua presenza, all’inizio fortemente pregnante e molto spesso evocata nel mio lavoro, si è via via rafforzata verso un rapporto più funzionale alla mia personale ricerca. La nostra amicizia dava linfa a quella dedizione cui accennavo prima e, soprattutto, amplificava la visione introspettiva dell’opera, mi aiutava a dare forza nell’uso “altro” della fotografia e mi conduceva per mano nell’approfondimento dello spazio/tempo all’interno del perimetro della carta.

E’ stata una folgorazione immediata o una passione che ha avuto una gestazione più lunga, più meditata?
Credo, piuttosto, ad una concreta applicazione verso terre ancora per me inesplorate. La Fotografia ha creato in me lo stimolo della curiosità: stimolo verso un certo tipo di letteratura, stimolo verso un modo di osservare e scoprire l’arte. Non a caso il continuo bisogno di ricerca mi ha avvicinato a tutto il mondo dell’Arte Contemporanea, seminando in me quei germogli che, nel tempo, mi avrebbero portato alla mia condizione attuale, nella quale il lavoro di artista si amplifica in direzione di tutti i media. In sostanza, è come se con la Fotografia avessi avuto un mezzo con il quale viaggiare in territori più vasti e dai quali attingere per crescere come uomo, per darmi coscienza e forza nel mutare la mia condizione professionale: da ragioniere del passato all’artista di oggi.

Nella tua ‘genealogia fotografica’ personale hai avuto esempi di fotografi in casa, tra i parenti o gli amici, oppure sei entrato nel mondo della fotografia da solo, seguendo una strada tutta tua?
Sono entrato completamente da solo, da puro autodidatta della notte, con ore ed ore passate su libri e in camera oscura, rubando tempo al sonno. Una fuga in solitaria. E questa, indubbiamente, è stata la causa principale nell’aver percorso una strada tutta mia, una strada piena di libertà, ma anche di costanti insidie che hanno corazzato la mia struttura. Ora, infatti, posso trasmettere al prossimo una mia ferma convinzione: quella di perseguire le proprie visioni oltre ogni ostacolo, e le energie che ruoteranno intorno faranno il resto, creeranno le condizioni ottimali per la crescita di destini favorevoli.

Quale è stata la tua prima macchina fotografica e quali sono state le prime immagini che hai scattato? Le conservi ancora?
La mia prima macchina fotografica ufficiale, dopo ovviamente l’Agfa della cresima, è proprio quella del viaggio in Turchia: la Yashica FR con obiettivo Vivitar 35/70. Nel tempo sono passato ad un paio di Contax, sempre per il piccolo formato, e alla Pentax 67, che uso ancora oggi, per il medio formato. Per le immagini, come per tutto il resto dei miei appunti, sono un archivista maniacale: mi piace lasciare le tracce del mio percorso. Credo molto nella memoria, per dare corpo alla coerenza artistica e poter stilare con organicità l’identità del mio linguaggio.

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato per la prima volta il mondo attraverso un mirino?
Centralità, ecco cosa ho provato. La possibilità di delineare i contorni ed eliminare il superfluo mi dava una centralità di osservazione, una puntualizzazione sulla visione d’insieme e pertanto un accentramento dell’attenzione. Il mirino mi ha insegnato a concentrare lo sguardo e nel tempo mi sono reso conto che focalizzavo sempre più ed in misura circoscritta, prediligendo i dettagli ai panorami. Il paesaggio è via via sparito e al suo posto è subentrato il solo uso di tracce, di segni e forti contrasti di linee e forme.

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato le prime immagini scattate da te? O cosa hai provato quando le hai viste affiorare in camera oscura?
A parte l’entusiasmo per la riuscita, che è sicuramente il primo passo che avviene in tutti, ho provato una forte consapevolezza nel dire: bene, ci siamo, è giunto il momento di andare oltre l’orizzonte. Le mie riflessioni diventavano realtà, i miei pensieri prendevano corpo, i desideri trovavano forza nell’uscire allo scoperto. Su tutto, visto il mio percorso di autodidatta, anche un pizzico di orgoglio che stimolava giorno dopo giorno la mia ricerca.

Quando hai capito che la tua passione iniziale si era trasformata in una necessità: quando la fotografia non è più stata solo un desiderio, ma è diventata un linguaggio?  
E’ stata la naturale conseguenza di quanto ho appena accennato. Francamente posso dire che per me la Fotografia non è stata mai “passione”. Fin dall’inizio ho perseguito dei risultati con un accanimento tale che della “passione” aveva ben poco. E’ stata sempre una questione di necessità interiore, di spinta continua nell’indagare l’animo per determinare un mio linguaggio, per far uscire a chiare lettere la mia identità. Per ottenere con ostinazione un nuovo alfabeto fatto solo di due colori, il bianco ed il nero, ho dovuto profondere continuamente me stesso, donare al tempo tutto il mio essere con perfetto affiatamento, nella convinzione che l’armonia di tale unione è la materia prima di cui sono fatte le mie opere.

Da Geo Tag Projet: Patmos Edition – N 37° 18’ 34.751”  E 26° 32’ 45.859”


Quale è stata la formazione, il percorso di crescita (studi, maestri, immagini, esperienze) che ti ha condotto dalle prime immagini al fotografo che sei oggi?   
Proprio in ragione della costruzione di una forte identità eclettica, ho sempre amato l’interazione fra le arti e la possibilità di farle confluire nel mio lavoro. Di conseguenza ho approfondito studi, oltre che in fotografia, anche in arte moderna e contemporanea, in architettura e design, in letteratura e musica. Gli incontri con maestri avvenuti nel tempo sono molteplici, come numerose sono le esperienze che hanno maturato la mia crescita. Tutto questo ha comportato un percorso dalle innumerevoli sfaccettature, con la costanza di una ricerca coerente ed unitaria. Il risultato, ad oggi, è che uso la fotografia in totale interazione con altri materiali. E’ essa stessa materia prima, ed applico il linguaggio acquisito a tutti i miei lavori: dalla costruzione di opere pubbliche alle sculture; dai quadri ai libri realizzati come pezzo unico; dai progetti fotografici a progetti architettonici e d’interni. In sostanza posso definirmi un uomo artista a tutto tondo, che opera in ogni direzione con il suo taccuino in bianco e nero, che lavora con ricerca e concezione linguistica costante, che naviga verso orizzonti infiniti con la macchina fotografica sempre al suo fianco.

Per ulteriori approfondimenti: www.massimilianoorlandoni.it

lunedì 21 gennaio 2013

Carola Merello. Perché sono diventata fotografa


Magari non ti sai spiegare nei dettagli più minuti perché hai scelto di fotografare, ma quando – come racconta la fotografa Carola Merello la tua camera e la tua mente di adolescente cominciano a riempirsi di immagini; quando trovi «elettrizzante» che lo sguardo fotografico sia «l’unico modo che hai di vedere il mondo che ti circonda», beh, allora qualcosa è davvero successo dentro di te. Qualcosa che ti fa capire che sei passato dall’altra parte e che sei dentro ciò che ami. La fotografia, appunto.



Carola Merello (1998)


Non saprei dire com’è veramente cominciata… così come non ricordo il giorno in cui ho capito di amare l’arte, di essere attratta dall’architettura, di voler bene ai miei genitori; così come non ricordo il primo senso di malinconia e il giorno in cui ho capito che babbo natale non esisteva; così come non  ricordo di preciso quando ho smesso di credere in dio e il giorno in cui mi sono accorta di crescere… Così come non ricordo tutti questi passaggi della mia vita, allo stesso modo non saprei dire quando è cominciato questo mio percorso e quando è nata la passione per la fotografia.

Nella mia vita è sempre stato così: le cose veramente importanti sono emerse in modo silenzioso e senza dettagli, per prendere piede dopo, poco a poco, dando vita a una miriade di quei dettagli nascosti . Per creare il cambiamento, in questo caso definitivo.

Ricordo che da bambina ero attratta dalle immagini. Mio nonno aveva fatto del suo amore per la fotografia molto più di un semplice hobby. Era ingegnere, ma non smetteva mai di documentare tutto ciò che lo circondava: sviluppava e stampava in camera oscura, comprava attrezzatura professionale e inseguiva senza sosta un bisogno di documentare le architetture prima, la vita poi, quasi fosse una necessità.

La mia prima macchina reflex fu una Yashica 109. Ero solo una ragazzina, ma poter finalmente decidere come le mie foto sarebbero state, credo decretò il definitivo riconoscimento da parte mia di un gioco che si tramutava in esercizio… e infine in passione. Fotografavo tutto, qualunque cosa mi circondasse. Erano ancora gli anni in cui non era banale capire come sfruttare a proprio piacimento quel mezzo misterioso. Eppure si sperimentava, si sbagliava, si iniziava a capire e spesso bastava un’intuizione per creare qualcosa.

Nel corso del tempo questo bisogno di narrare divenne sempre più importante. L’amore per le immagini era costante, ma la voglia di crearne di nuove cresceva in modo esponenziale. Sentivo di voler migliorare nel tentativo di produrre qualcosa che rappresentasse il mio modo di vedere, ma soprattutto la fotografia stava diventando una “compagnia” elettrizzante. Così negli anni dell’adolescenza la mia camera iniziò a riempirsi di album e la mente di immagini. E’ splendido quando sopraggiunge quel momento in cui lo sguardo mette a fuoco ‘fotografie’ invece di ‘semplici visioni’. Quando tutto diventa studio sulla cornice o esaltazione di forme… quando la realtà tridimensionale diventa bidimensionale perché quello, improvvisamente, è  l’unico modo che hai per vedere il mondo che ti circonda.

Ricordo che mi chiedevo in modo assillante perché non avrei dovuto concentrare la mia vita su qualcosa che amavo, invece di fare un lavoro qualsiasi che mai avrebbe spodestato quell’interesse. E così la coda di quel ragionamento mi ha portata fin qui.


Carola Merello (2009)


Ho iniziato a lavorare come assistente nella moda e poi in tutti gli altri campi della fotografia. Ho anche studiato, perché alla fine la curiosità era il motore di tutto. Più informazioni e dettagli mi raggiungevano, più ero sopraffatta da questo desiderio. Ecco: quella curiosità che aveva travolto mio nonno, alla fine aveva ingoiato anche me…

Una curiosità che non sfama mai, che sembra non voler finire ed è questo, credo, il   suo segreto. Nella vita, poi, le coincidenze e gli interessi mi hanno portata a documentare l’architettura, ma quello che resta è la capacità di rigenerare la propria visione fotografica senza mai annoiarsi. Variare le giornate come i punti di vista,  le inquadrature ed il proprio senso estetico perché quell’esercizio e quella passione che mi hanno accompagnata per tanti anni non smettono di tenermi compagnia.


Carola Merello (2010) 

domenica 6 gennaio 2013

Maurizio Lodi. Come sono diventato fotografo


Anche per Maurizio Lodi l’incontro con una scuola è stato il momento decisivo che ha permesso di trasformare un “grande desiderio di arte” in un percorso preciso e consapevole verso la fotografia. Un percorso che ha avuto il suo momento topico quando Maurizio ha detto a se stesso: “Devo provarci e basta”. Ecco il suo racconto. 



Maurizio Lodi, Primo autoritratto



Con niente in mano
Dopo stagioni di impegno politico, ventisettenne, mi trovavo alla fine degli anni ’80 con un lavoro di fattorino e senza saper fare niente. Niente in mano, se non un vago piacere ad esprimermi nel disegno e nella musica. Avevo un grande desiderio di arte, di cui mi ero nutrito, ma che era stato messo in crisi dalla cultura del materialismo, anche se dialettico, di quegli anni. Fino ad allora la fotografia, e la mia Nikon FM, avevano documentato le vacanze.


Il primo passo
Collaborando ad una radio politica avevo conosciuto uno studente di fotografia dell'Umanitaria [oggi CFP Bauer, Ndr]. Avevo l'impressione che lui stesse costruendo un suo futuro e così quando decisi di imparare un mestiere, di andare a studiare, fra cinema e fotografia scelsi l'Istituto Europeo di Design, diretto da Martino Schiera.


Tre cose mi convinsero: l'impostazione professionale, la disponibilità di attrezzature e l'esistenza, dato che di giorno lavoravo, di un corso serale dalla retta sopportabile. In programma nel corso, c’era la fotografia di still life. Molta tecnica e parecchia pratica, e gli insegnanti particolarmente appassionati: Carlo Scillieri per la ripresa, Claudio Scarano per la teoria, Pierluigi Portner in camera oscura. Sono grato a queste persone per l'entusiasmo che seppero trasmettermi. Grazie a loro diventare fotografo era possibile anche per un fattorino che si pagava gli studi e che aveva solo letto il manuale di Andreas Feininger. Tutto mi veniva facile e ripresi il gusto di fare immagini perché le progettavo e perché sapevo che a qualcosa sarebbero servite. Il passaggio da "diapo" a "dia", la crescita da foto-amatore a foto-grafo è proprio questo: passare dalle decine di scatoline zeppe di diapo polverose alle dieci immagini in un anno, per il mio portfolio.


In marcia verso la professione
Il corso serale venne ripetuto l'anno seguente: mi iscrissi e lo seguii, e alla scuola venne richiesta una persona  che seguisse gli esordi di una azienda commerciale che stava nascendo. Da impiegato di segreteria in azienda, per l'interessamento dell'amico che aveva studiato all'Umanitaria, ora assistente fotografo, ero passato a lavorare in una camera oscura, dove, con un ingranditore Durst enorme, stampavo pellicole al tratto per farne impianti serigrafici. Da lì sarei poi andato a vendere attrezzatura fotografica professionale ai fotografi professionisti, con la Manfrotto Trading. La mia marcia verso la professione progrediva.


Da fattorino avevo avuto un incidente in automobile al quale ero scampato quasi indenne e quando, a tre anni di distanza, mi arrivarono i soldi dell'invalidità che avevo contratto, sapevo come spenderli. Martino Schiera mi portò alla Fatif e comperai il banco ottico, il cavalletto, due lenti Rodenstock, degli chassis, tre luci Ianiro e tre stativi: il mio studio. Di basso profilo, forse, ma perfettamente in grado di lavorare.


Devo provarci
Intanto alla Manfrotto Trading, assistendo Arnaldo Calanca, conobbi e toccai con mano tutto quello di cui un fotografo aveva bisogno. Il lavoro era molto intenso e non lasciava troppo spazio alle speranze professionali, per cui, quando fui cotto a puntino, impazzii. Non so spiegare come decisi e che tipo di presunzione mi prese: dovevo provarci e basta. Fu complice un clima di entusiasmo che si era creato nel corso: quasi tutti diventammo fotografi. Con Franco, con cui vivevo e condividevo una cantina-studio, avevamo un confronto artistico e tecnico serrato; ad Adriano promisi di fare uno studio associato; con Gianni, che aveva i flash, condivisi il mio primo lavoro, ed il mio studio lo chiamai Ubik, da un romanzo di Philip Dick, appena letto.


Come una troupe del National Geographic
Quando mi licenziai da Manfrotto passai tre mesi a chiamare al telefono possibili clienti e quando arrivai alle ultime diecimila lire ebbi la fortuna di ottenere un colloquio da Farmitalia Carlo Erba. Le mie foto piacquero e il lavoro fu mio: dovevo illustrare la relazione di bilancio della più grande azienda farmaceutica italiana con un reportage sugli impianti di Nerviano. L'anno prima Mario De Biasi con la sua Leica si era aggirato per gli stabilimenti ed il suo cachet probabilmente era stato all'altezza della sua fama e bravura. Io e Gianni Pucci arrivammo con due generatori, quattro torce, cavalletti, gelatine colorate, banco ottico e pellicole piane. Era una follia forse, ma sembravamo, al confronto, una troupe del National Geographic, e il nostro lavoro centrò le aspettative del cliente. E in più, con la qualità del grande formato.


Oggi
Cinque anni dopo ricomparve nella mia vita Franco Pizzocchero, lo studente dell'Umanitaria e non escludo che i miei tentativi di emularlo sono forse stati alla base di questo mio percorso. Con lui condivisi lo studio ed é ancora grazie a lui che mi sono occupato di alimentazione, che é diventata la mia specializzazione.


Maurizio Lodi, Brasato

domenica 23 dicembre 2012

Contro l'immaginario abusato


In un auto-commento alle sue esplorazioni fotografiche di Roma, Gabriele Basilico, in  Leggere le fotografie in dodici lezioni, Milano, Rizzoli 2012, scrive: Raccontare il fiume [Tevere] come se fosse separato dalla città è forse un po’ come nascondere quei luoghi storici e monumentali che la rendono [Roma] immediatamente riconoscibile, e quindi è come sottrarre la città al suo immaginario arcinoto. E il sottotitolo di questa IX lezione, da cui è tratta la citazione, contiene un aggettivo che spiega ancora meglio il senso della frase: Sottrarre la città a un immaginario abusato.

Cosa significa? Provo a rispondere analizzando il metodo di lavoro adottato in questa occasione da Gabriele Basilico. Il fotografo milanese, nel 2007, era stato invitato da FotoGrafia – Festival Internazionale della Fotografia di Roma, a proporre la sua lettura della città[1]. Cosa ha fatto Basilico? Ha operato da subito uno spiazzamento del punto di osservazione: invece di esplorare il tessuto urbano da terra, Basilico ha scelto il Tevere (e i suoi ponti) come “strada fluviale” che attraversa la città, linea guida del suo itinerario visivo (ho considerato il fiume come vettore che intercetta il tessuto della città). In questo modo ha preso forma un secondo spiazzamento: il fiume è diventato il soggetto dell’esplorazione (…) chiedendo sempre più attenzione fino a escludere la città, confinandone l’immagine dietro gli argini. In altre parole: il fiume ha messo in secondo piano la città e i suoi monumenti, cioè ha tolto la scena a tutti gli elementi dell’immaginario che concorrono al riconoscimento facile ed immediato (abusato) di Roma.    

Dunque, un modo per sottrarre il soggetto agli automatismi percettivi messi in moto da un immaginario ‘abusato’ è quello di spingere sullo sfondo, “dietro gli argini”, gli elementi caratteristici con i quali noi riconosciamo, d’abitudine, un soggetto. Ne è un classico esempio questa foto di Man Ray

Man Ray


dove i chiodi in primo piano spingono sullo sfondo il peso (visuale e percettivo) del ferro da stiro e delle sue qualità abituali. Con quale risultato? In questa configurazione l’immagine lascia emergere un oggetto “altro”, un oggetto che l’immaginario non riconosce immediatamente perché collocato fuori da quella “zona di comfort” percettiva che l’abitudine costruisce quotidianamente per lo sguardo e per la memoria.

Ma c’è un altro elemento, suggerito dalla lezione di Basilico, che vale la pena indagare. E’ contenuto nel verbo nascondere: nascondere quei luoghi storici e monumentali che rendono [Roma] immediatamente riconoscibile. In questo ‘nascondere’ si colloca un secondo modo per sottrarre il soggetto agli automatismi della visione. E’, forse, un modo più radicale di spiazzamento perché, rispetto al primo (l’allontanamento sullo sfondo delle caratteristiche “abusate”), ‘nascondere’ il soggetto scatena – come direbbe Arnheim – una “forza psicologica” più potente, che richiede allo spettatore un contributo, in termini di interpretazione/decifrazione del soggetto, che non può più essere solo di registrazione meccanica, ma pretende un preciso lavoro di svelamento (= togliere il velo) e di riscoperta del soggetto. E’ quanto avviene, ad esempio, in molte immagini di Franco Fontana

Franco Fontana


dove il paesaggio è il soggetto “nascosto” dal ritmo delle forme e delle campiture di colore. O nei ritratti-mosaico di Maurizio Galimberti

Maurizio Galimberti


Qui, il ritratto frantumato in schegge dinamiche (ogni polaroid è una diversa prospettiva dello sguardo), nasconde il volto del soggetto all’immediatezza percettiva del riconoscimento e invita il al lettore a ritrovare l’unità nascosta del volto.

In tutti questi casi, il denominatore comune delle immagini è la rottura di uno stato di quiete della visione per ingaggiare la ricerca di un nuovo equilibrio visuale e, con esso, un nuovo significato delle cose. Credo sia rinchiuso qui il senso di una frase di Rudolf Arnheim (Arte e percezione visiva) che porto, da tempo, sempre con me: la visione è una maniera creativa di afferrare la realtà. Come la fotografia.


[1] Lavoro confluito nel volume Gabriele Basilico. Roma 2007, a cura di Angela Madesani, realizzato come catalogo dell’omonima mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma curata da Marco Delogu.

lunedì 3 dicembre 2012

Marco Benna. Perché sono diventato fotografo


“Forse la fotografia nasce dalla pancia, vive nella testa e si manifesta agli occhi”. Dopo queste parole del fotografo Marco Benna faccio un passo indietro e rinuncio a scrivere il cappello introduttivo all’intervista di oggi. Lascio che a parlare sia subito l’amico Marco: il  modo migliore per farci   accompagnare dentro i suoi ricordi, il suo racconto, il suo mondo fotografico. 



Marco Benna, La mia prima fotografia



Marco Benna. Perché sono diventato fotografo

Fotografare intorno ad un fatto, a persone che si raccontano con le loro azioni. Con il desiderio di costruire un rapporto tra le cose, con le cose. Forse la fotografia nasce dalla pancia, vive nella testa e si manifesta agli occhi. Spesso violenta le persone, non c’è dubbio. Prima o poi un signore chiederà spiegazione.

La fotografia racconta di qualcosa, di qualcuno, di sé come apparato, al punto che alcune foto, diciamolo, si scattano da sole. Ma con grande cortesia verso il fotografo.

Fotografare per me è come trovare un luogo dove sospendere il tempo e provare a scoprire, nel senso di scoperchiare. Può durare un attimo o non finire mai.

Marco, quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad abbracciare la fotografia?

Onestamente non so individuare un momento specifico, un inizio. So che ho iniziato in quel periodo della vita dove l’adolescenza sta finendo e ci si guarda intorno. E ho iniziato a scoprire, nel senso di scoperchiarla, la musica e la fotografia.

Quando (e dove, se lo ricordi) è successo che, quasi improvvisamente, ti sei detto: « Io non posso essere altro che fotografo »?

Più che un momento, c’è netta la sensazione del legame. Di un legame che si saldava scatto dopo scatto. E di una necessità nel considerare la fotografia vitale, per continuare, forse, ad essere un ragazzo e un giovane che cercava un suo posto nel mondo. 

E’ stata una fascinazione istintiva, emotiva o era già un’attrazione intellettuale, estetica?

Credo tutto insieme. Anche oggi non separo così nettamente istinto ed emozione dalla dimensione intellettuale ed estetica. Fin da subito, però, ricordo che mi piaceva guardare le fotografie e mi sembrava di coglierne le differenze. Spesso anche giudicando, come si fa da ragazzini, terribilmente.

A quale incontro devi la tua passione iniziale? Con una persona, un fotografo, un’immagine, una mostra, un libro, un regalo, un luogo. O con il Caso?

Nella fase iniziale credo che la competizione con un mio amico sia stato la molla che ha fatto partire il tutto. Nulla di romantico. Credo proprio una sana competizione. Fotografia e musica per entrambi. E lui aveva una macchina fotografica che ancora non avevo, me l’ha prestata e ho iniziato.

E’ stata una folgorazione immediata (per intenderci: come la caduta da cavallo di San Paolo sulla strada di Damasco) o una passione che ha avuto bisogno di una gestazione più lunga, più meditata?

Più vicino all’innamoramento. Poi, nel giro di pochi anni, si è consolidato un rapporto fatto anche di letture, di mostre importanti – Venezia '79 -  di riviste, di incontri.

Nella tua genealogia fotografica personale ci sono stati esempi di fotografi in casa, tra i parenti o gli amici, oppure sei entrato nel mondo della fotografia da solo, seguendo una strada tutta tua?

All’inizio autodidatta totale, e solo un po’ più avanti, nel tempo, ho seguito diversi workshop e un corso di fotografia all’interno di una scuola sperimentale in Rai, tra i 24 e i 26 anni. In gioventù la fotografia che mi ha appassionato da subito è stato il reportage. Ma erano anche gli anni ‘70, le manifestazioni, l’impegno politico, gli amici.

Quale è stata la tua prima macchina fotografica e quali sono state le prime immagini che hai scattato? Le conservi ancora?

Olympus OM1. Che conservo e che talvolta uso ancora, sia per mantenerla attiva, sia per fotografare in quell’unico modo che la macchina consente: manuale, senza scampo.

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato per la prima volta il mondo attraverso un mirino?

WOW! ci siamo!!

E cosa hai provato quando hai guardato le prime immagini scattate da te? O quando le hai viste affiorare in camera oscura?

Beh, emozione è poco. Come molti che sono passati da quell’esperienza, c’è proprio della magia nel vedere le immagini che arrivano. E che spesso le prime volte se ne scappano via, annerendosi. Una gioia mista ad incazzatura. E’ divertente ricordarsi quei momenti. C’è una dimensione alchemica, di scoperta di un mondo e credo anche di un potere. Quello di saper governare quel processo. Più o meno illusoriamente, non importa, ma quella sensazione c’è!

Quando hai capito che la tua passione iniziale si era trasformata in una necessità, vale a dire: quando la fotografia non è più stata solo un desiderio, ma è diventata un linguaggio?  

Abbastanza alla svelta. Dal punto di vista della necessità l’avvertivo, in modo molto istintivo. Nel ‘79 andando alla grande mostra a Venezia, e avevo 20 anni, lì capisco ciò che stavo intuendo da un po’. Che la fotografia è un mondo, variegato, ricco, e che dovevo imparare ancora tanto, ma tanto. Dal punto di vista del linguaggio credo di aver avuto velocemente la sensazione di ottenere un risultato grazie alla manipolazione (come nella plastilina) di un linguaggio.

Quale è stata la formazione, il percorso di crescita (studi, maestri, immagini, esperienze) che ti ha condotto dalle prime immagini al fotografo che sei oggi?   

Come dicevo, all’inizio da autodidatta. Confronti con gli amici, alcuni più grandi passavano le prime informazioni e da subito, parliamo tra i 15 e i 16 anni circa, buttati su riviste, a caso ovviamente, a guardare le fotografie. Per cui chissà chi mi ha veramente influenzato. Ma fotografando ai cortei, e nei momenti della politica, il reportage italiano, in particolare Uliano Lucas, mi stimolava. Sono arrivate le riviste come il Diaframma di Lanfranco Colombo, e le altre più commerciali come Photo e Zoom, ma attente alla qualità fotografica, oppure lo straordinario periodo dell’Illustrazione Italiana, con sempre U.Lucas come photo editor (ma mi sembra che allora non si chiamasse così) . Per cui, più che nomi particolari credo che mi sia fatto influenzare da un tipo di approccio alla fotografia, forse più ampio e consapevole dei diversi livelli in cui si manifesta. E ancora oggi i nomi mi interessano, certo, ma mi interessa comprendere la fotografia come sistema, come mondo. Verso i 25 anni, nella scuola prima citata, è arrivato un corso sul linguaggio fotografico, gestito da Franco Torriani, maestro indiscusso di faccende d’azienda e di arte, e ancor oggi caro amico e il primo workshop con F. Fontana. Poi una collaborazione con un giornalista per iniziare a fare sul serio. E’ durata due anni e poi mi hanno fregato quasi tutto. E per diverse ragioni la carriera professionale finisce lì. 

Dopo una decina d’anni, o poco più, complice il figlio che si stava diplomando in fotografia e grazie a un suo bel lavoro sui compagni di classe, mi sono riconnesso con il gusto del fotografare, mai spento del tutto, ma un po’ affievolito. E così ho iniziato un lavoro, chiamiamolo autoriale, per capirci, svincolato dall’impegno professionale. D’altronde il lavoro di comunicatore mi portava e mi porta a dialogare continuamente con la fotografia e i fotografi.

E oltre al fotografare è rinato anche un interesse verso la fotografia come fatto culturale e sociale. Da lì inizio ad occuparmi di workshop, laboratori e seminari, anche un po’ particolari. In questo momento è in evoluzione un progetto di taglio culturale, abbastanza impegnativo. Se funziona ne riparleremo.

Trovo che a distanza di 38 anni dalla mia prima foto si intravedono le tracce di un'identità visiva  (M. Benna)


Cos’è oggi la fotografia, per me? E innanzi tutto fotografare, portare avanti i progetti fotografici e produrne visibilità con mostre e con il web. E’ anche concepire la fotografia per quello che è nel suo insieme, un dispositivo che segnala la contemporaneità, le trasformazioni, nel suo rapporto con le reti e i media, con il racconto e le diverse forme estetiche. E la guardo anche da comunicatore. Per questo continua ad affascinarmi, più la conosco e più voglio conoscerla.