Anche per Maurizio Lodi l’incontro con una scuola è stato il momento decisivo che ha permesso
di trasformare un “grande desiderio di arte” in un percorso preciso e
consapevole verso la fotografia. Un percorso che ha avuto il suo momento topico
quando Maurizio ha detto a se stesso: “Devo provarci e basta”. Ecco il suo racconto.
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Maurizio Lodi, Primo autoritratto |
Con niente in mano
Dopo stagioni di impegno politico, ventisettenne, mi trovavo alla fine degli anni ’80 con un lavoro di fattorino e senza saper fare niente. Niente in mano, se non un vago piacere ad esprimermi nel disegno e nella musica. Avevo un grande desiderio di arte, di cui mi ero nutrito, ma che era stato messo in crisi dalla cultura del materialismo, anche se dialettico, di quegli anni. Fino ad allora la fotografia, e la mia Nikon FM, avevano documentato le vacanze.
Il primo passo
Collaborando ad una
radio politica avevo conosciuto uno studente di fotografia dell'Umanitaria [oggi CFP Bauer, Ndr]. Avevo l'impressione che lui stesse costruendo
un suo futuro e così quando decisi di imparare un mestiere, di andare a
studiare, fra cinema e fotografia scelsi l'Istituto Europeo di Design, diretto da Martino Schiera.
Tre cose mi
convinsero: l'impostazione professionale, la disponibilità di attrezzature e l'esistenza,
dato che di giorno lavoravo, di un corso serale dalla retta sopportabile. In
programma nel corso, c’era la fotografia di still life. Molta tecnica e
parecchia pratica, e gli insegnanti particolarmente appassionati: Carlo
Scillieri per la ripresa, Claudio Scarano per la teoria, Pierluigi Portner in
camera oscura. Sono grato a queste persone per l'entusiasmo che seppero
trasmettermi. Grazie a loro diventare fotografo era possibile anche per un
fattorino che si pagava gli studi e che aveva solo letto il manuale di Andreas Feininger. Tutto mi veniva facile e ripresi il gusto di fare
immagini perché le progettavo e perché sapevo che a qualcosa sarebbero servite.
Il passaggio da "diapo" a "dia", la crescita da
foto-amatore a foto-grafo è proprio questo: passare dalle decine di scatoline
zeppe di diapo polverose alle dieci immagini in un anno, per il mio portfolio.
In marcia verso la professione
Il corso serale
venne ripetuto l'anno seguente: mi iscrissi e lo seguii, e alla scuola venne
richiesta una persona che seguisse gli esordi di una azienda commerciale
che stava nascendo. Da impiegato di segreteria in azienda, per l'interessamento
dell'amico che aveva studiato all'Umanitaria, ora assistente fotografo, ero
passato a lavorare in una camera oscura, dove, con un ingranditore Durst
enorme, stampavo pellicole al tratto per farne impianti serigrafici. Da lì sarei
poi andato a vendere attrezzatura fotografica professionale ai fotografi
professionisti, con la Manfrotto Trading. La mia marcia verso la professione
progrediva.
Da fattorino avevo avuto
un incidente in automobile al quale ero scampato quasi indenne e quando, a tre
anni di distanza, mi arrivarono i soldi dell'invalidità che avevo contratto,
sapevo come spenderli. Martino Schiera mi portò alla Fatif e comperai il banco
ottico, il cavalletto, due lenti Rodenstock, degli chassis, tre luci Ianiro e
tre stativi: il mio studio. Di basso profilo, forse, ma perfettamente in grado
di lavorare.
Devo provarci
Intanto alla
Manfrotto Trading, assistendo Arnaldo Calanca, conobbi e toccai con mano tutto quello di cui un fotografo aveva
bisogno. Il lavoro era molto intenso e non lasciava troppo spazio alle speranze
professionali, per cui, quando fui cotto a puntino, impazzii. Non so spiegare
come decisi e che tipo di presunzione mi prese: dovevo provarci e basta. Fu
complice un clima di entusiasmo che si era creato nel corso: quasi tutti
diventammo fotografi. Con Franco, con cui vivevo e condividevo una
cantina-studio, avevamo un confronto artistico e tecnico serrato; ad Adriano
promisi di fare uno studio associato; con Gianni, che aveva i flash, condivisi
il mio primo lavoro, ed il mio studio lo chiamai Ubik, da un romanzo di Philip Dick, appena letto.
Come una troupe del National
Geographic
Quando mi licenziai
da Manfrotto passai tre mesi a chiamare al telefono possibili clienti e quando
arrivai alle ultime diecimila lire ebbi la fortuna di ottenere un colloquio da
Farmitalia Carlo Erba. Le mie foto piacquero e il lavoro fu mio: dovevo
illustrare la relazione di bilancio della più grande azienda farmaceutica
italiana con un reportage sugli impianti di Nerviano. L'anno prima Mario De Biasi con la sua Leica si era
aggirato per gli stabilimenti ed il suo cachet probabilmente era stato
all'altezza della sua fama e bravura. Io e Gianni Pucci arrivammo con due
generatori, quattro torce, cavalletti, gelatine colorate, banco ottico e
pellicole piane. Era una follia forse, ma sembravamo, al confronto, una troupe
del National Geographic, e il nostro lavoro centrò le aspettative del cliente. E
in più, con la qualità del grande formato.
Oggi
Cinque anni dopo ricomparve
nella mia vita Franco Pizzocchero, lo studente dell'Umanitaria e non escludo
che i miei tentativi di emularlo sono forse stati alla base di questo mio
percorso. Con lui condivisi lo studio ed é ancora grazie a lui che mi sono
occupato di alimentazione, che é diventata la mia specializzazione.![]() |
Maurizio Lodi, Brasato |
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