Ho
conosciuto Massimiliano Orlandoni nel 1998, a Pavia, in occasione di un’asta di fotografia cui era stato invitato
a partecipare con alcuni suoi lavori. Da allora siamo amici e, sebbene la
distanza non agevoli le frequentazioni (lui marchigiano, io lombardo), non
abbiamo mai interrotto il legame nato in quel lontano dicembre. Anzi, proprio
la distanza rende più intensi gli incontri, le telefonate o gli scambi
epistolari e alimenta sempre, senza il minimo intralcio, la mia sorpresa ogni
volta che scopro un nuovo lavoro di Massimiliano. Oggi sono felicissimo di
ospitare il suo racconto e di condividere la conoscenza di questo artista
poliedrico, vulcanico e generoso, cui non è mancato il coraggio, grazie alla
fotografia, di reinventare la sua vita.
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Dalla serie Il diavolo sulle colline |
Quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad
abbracciare la fotografia?
Un
viaggio in Turchia con la moto, nel 1990. Non avendo allora una macchina
fotografica, la ottenni in prestito dal fotografo del paese. Viaggiando on the road con tenda e sacco a pelo,
avevo molte attenzioni nei suoi confronti, al punto che ci dormivo
letteralmente insieme, appoggiata al mio fianco. Al ritorno, dopo una tale
intimità, il legame rimase indissolubile e l’acquistai direttamente ad un
prezzo di favore. Per tutto il viaggio era diventata il mio taccuino personale:
con la fotografia avevo scoperto la possibilità di poter interagire con quei
luoghi in assoluta libertà proprio come era il mio stile di viaggiare.
Quando è successo che ti sei detto: «Io non posso
essere altro che fotografo?»
Negli
anni successivi e sempre in conseguenza di viaggi, intrapresi l’altra metà del
mio percorso fotografico: quello della camera oscura. Esattamente nel 1992, un
amico mi regalò l’intero corso (e tutto il necessario per la creazione di una
camera oscura) che lui aveva acquistato, ma mai usato, tramite la Scuola Radio
Elettra. Al ritorno da un viaggio nell’Ovest degli Stati Uniti mi misi subito
al lavoro per creare delle stampe. Credo proprio che in quel momento sia nata in
me la vera coscienza fotografica, la responsabilità, la vastità di orizzonti
che la camera oscura dava allo scatto iniziale. Notte dopo notte, completamente
da autodidatta, con una dedizione tale che non potevo essere altro che un
fotografo.
E’ stata una fascinazione emotiva, d’istinto o
era già un’attrazione intellettuale, estetica?
Ho
pensato a questo diverse volte e nel tempo ho elaborato una sola risposta:
entrambe. Sì, di sicuro il fascino e l’emozione sono state artefici del mio
primo approccio. Poi, più mi addentravo nella materia ed approfondivo il mio
linguaggio personale, più la fotografia aveva per me una forte spinta
intellettuale, intima, creativa e si contrapponeva perfettamente alla mia
condizione di allora in cui facevo il ragioniere. Aggiungo che sono un esteta
per natura, con un’anima sempre protesa verso la spiritualità, verso una
cultura visiva e poetica della quale la Fotografia, quella sincera, ne è la
grande portavoce.
A quale incontro devi la tua passione iniziale?
Con una persona, un fotografo, un’immagine, una mostra, un libro, un luogo, con
il Caso?
Più
che la passione iniziale, per me è stata fondamentale la successiva
maturazione, la crescita mistica all’interno di un percorso che man a mano si
stava delineando. E in questo devo dare merito alla relazione avuta negli anni,
dal 1994 fino alla sua morte, con Mario Giacomelli. La sua presenza,
all’inizio fortemente pregnante e molto spesso evocata nel mio lavoro, si è via
via rafforzata verso un rapporto più funzionale alla mia personale ricerca. La
nostra amicizia dava linfa a quella dedizione cui accennavo prima e,
soprattutto, amplificava la visione introspettiva dell’opera, mi aiutava a dare
forza nell’uso “altro” della fotografia e mi conduceva per mano
nell’approfondimento dello spazio/tempo all’interno del perimetro della carta.
E’ stata una folgorazione immediata o una
passione che ha avuto una gestazione più lunga, più meditata?
Credo,
piuttosto, ad una concreta applicazione verso terre ancora per me inesplorate.
La Fotografia ha creato in me lo stimolo della curiosità: stimolo verso un
certo tipo di letteratura, stimolo verso un modo di osservare e scoprire
l’arte. Non a caso il continuo bisogno di ricerca mi ha avvicinato a tutto il
mondo dell’Arte Contemporanea, seminando in me quei germogli che, nel tempo, mi
avrebbero portato alla mia condizione attuale, nella quale il lavoro di artista
si amplifica in direzione di tutti i media. In sostanza, è come se con la
Fotografia avessi avuto un mezzo con il quale viaggiare in territori più vasti
e dai quali attingere per crescere come uomo, per darmi coscienza e forza nel
mutare la mia condizione professionale: da ragioniere del passato all’artista
di oggi.
Nella tua ‘genealogia fotografica’ personale hai
avuto esempi di fotografi in casa, tra i parenti o gli amici, oppure sei
entrato nel mondo della fotografia da solo, seguendo una strada tutta tua?
Sono
entrato completamente da solo, da puro autodidatta della notte, con ore ed ore
passate su libri e in camera oscura, rubando tempo al sonno. Una fuga in
solitaria. E questa, indubbiamente, è stata la causa principale nell’aver percorso
una strada tutta mia, una strada piena di libertà, ma anche di costanti insidie
che hanno corazzato la mia struttura. Ora, infatti, posso trasmettere al
prossimo una mia ferma convinzione: quella di perseguire le proprie visioni
oltre ogni ostacolo, e le energie che ruoteranno intorno faranno il resto,
creeranno le condizioni ottimali per la crescita di destini favorevoli.
Quale è stata la tua prima macchina fotografica e
quali sono state le prime immagini che hai scattato? Le conservi ancora?
La
mia prima macchina fotografica ufficiale, dopo ovviamente l’Agfa della cresima,
è proprio quella del viaggio in Turchia: la Yashica FR con obiettivo Vivitar
35/70. Nel tempo sono passato ad un paio di Contax, sempre per il piccolo
formato, e alla Pentax 67, che uso ancora oggi, per il medio formato. Per le
immagini, come per tutto il resto dei miei appunti, sono un archivista
maniacale: mi piace lasciare le tracce del mio percorso. Credo molto nella
memoria, per dare corpo alla coerenza artistica e poter stilare con organicità
l’identità del mio linguaggio.
Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato
per la prima volta il mondo attraverso un mirino?
Centralità,
ecco cosa ho provato. La possibilità di delineare i contorni ed eliminare il
superfluo mi dava una centralità di osservazione, una puntualizzazione sulla
visione d’insieme e pertanto un accentramento dell’attenzione. Il mirino mi ha
insegnato a concentrare lo sguardo e nel tempo mi sono reso conto che
focalizzavo sempre più ed in misura circoscritta, prediligendo i dettagli ai
panorami. Il paesaggio è via via sparito e al suo posto è subentrato il solo
uso di tracce, di segni e forti contrasti di linee e forme.
Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato
le prime immagini scattate da te? O cosa hai provato quando le hai viste
affiorare in camera oscura?
A
parte l’entusiasmo per la riuscita, che è sicuramente il primo passo che
avviene in tutti, ho provato una forte consapevolezza nel dire: bene, ci siamo, è giunto il momento di
andare oltre l’orizzonte. Le mie
riflessioni diventavano realtà, i miei pensieri prendevano corpo, i desideri
trovavano forza nell’uscire allo scoperto. Su tutto, visto il mio percorso di autodidatta,
anche un pizzico di orgoglio che stimolava giorno dopo giorno la mia ricerca.
Quando hai capito che la tua passione iniziale si
era trasformata in una necessità:
quando la fotografia non è più stata solo un desiderio, ma è diventata un linguaggio?
E’
stata la naturale conseguenza di quanto ho appena accennato. Francamente posso
dire che per me la Fotografia non è stata mai “passione”. Fin dall’inizio ho
perseguito dei risultati con un accanimento tale che della “passione” aveva ben
poco. E’ stata sempre una questione di necessità interiore, di spinta continua
nell’indagare l’animo per determinare un mio linguaggio, per far uscire a
chiare lettere la mia identità. Per ottenere con ostinazione un nuovo alfabeto
fatto solo di due colori, il bianco ed il nero, ho dovuto profondere continuamente
me stesso, donare al tempo tutto il mio essere con perfetto affiatamento, nella
convinzione che l’armonia di tale unione è la materia prima di cui sono fatte
le mie opere.
Da Geo Tag Projet: Patmos Edition – N 37° 18’ 34.751” E 26° 32’ 45.859” |
Quale è stata la formazione, il percorso di
crescita (studi, maestri, immagini, esperienze) che ti ha condotto dalle prime
immagini al fotografo che sei oggi?
Proprio
in ragione della costruzione di una forte identità eclettica, ho sempre amato
l’interazione fra le arti e la possibilità di farle confluire nel mio lavoro.
Di conseguenza ho approfondito studi, oltre che in fotografia, anche in arte
moderna e contemporanea, in architettura e design, in letteratura e musica. Gli
incontri con maestri avvenuti nel tempo sono molteplici, come numerose sono le
esperienze che hanno maturato la mia crescita. Tutto questo ha comportato un
percorso dalle innumerevoli sfaccettature, con la costanza di una ricerca
coerente ed unitaria. Il risultato, ad oggi, è che uso la fotografia in totale
interazione con altri materiali. E’ essa stessa materia prima, ed applico il
linguaggio acquisito a tutti i miei lavori: dalla costruzione di opere
pubbliche alle sculture; dai quadri ai libri realizzati come pezzo unico; dai
progetti fotografici a progetti architettonici e d’interni. In sostanza posso
definirmi un uomo artista a tutto tondo, che opera in ogni direzione con il suo
taccuino in bianco e nero, che lavora con ricerca e concezione linguistica
costante, che naviga verso orizzonti infiniti con la macchina fotografica
sempre al suo fianco.
Per
ulteriori approfondimenti: www.massimilianoorlandoni.it
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