domenica 3 febbraio 2013

Massimiliano Orlandoni. Perché sono diventato fotografo


Ho conosciuto Massimiliano Orlandoni nel 1998, a Pavia, in occasione di un’asta di fotografia cui era stato invitato a partecipare con alcuni suoi lavori. Da allora siamo amici e, sebbene la distanza non agevoli le frequentazioni (lui marchigiano, io lombardo), non abbiamo mai interrotto il legame nato in quel lontano dicembre. Anzi, proprio la distanza rende più intensi gli incontri, le telefonate o gli scambi epistolari e alimenta sempre, senza il minimo intralcio, la mia sorpresa ogni volta che scopro un nuovo lavoro di Massimiliano. Oggi sono felicissimo di ospitare il suo racconto e di condividere la conoscenza di questo artista poliedrico, vulcanico e generoso, cui non è mancato il coraggio, grazie alla fotografia, di reinventare la sua vita.      


Dalla serie Il diavolo sulle colline



Quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad abbracciare la fotografia?
Un viaggio in Turchia con la moto, nel 1990. Non avendo allora una macchina fotografica, la ottenni in prestito dal fotografo del paese. Viaggiando on the road con tenda e sacco a pelo, avevo molte attenzioni nei suoi confronti, al punto che ci dormivo letteralmente insieme, appoggiata al mio fianco. Al ritorno, dopo una tale intimità, il legame rimase indissolubile e l’acquistai direttamente ad un prezzo di favore. Per tutto il viaggio era diventata il mio taccuino personale: con la fotografia avevo scoperto la possibilità di poter interagire con quei luoghi in assoluta libertà proprio come era il mio stile di viaggiare.

Quando è successo che ti sei detto: «Io non posso essere altro che fotografo?»
Negli anni successivi e sempre in conseguenza di viaggi, intrapresi l’altra metà del mio percorso fotografico: quello della camera oscura. Esattamente nel 1992, un amico mi regalò l’intero corso (e tutto il necessario per la creazione di una camera oscura) che lui aveva acquistato, ma mai usato, tramite la Scuola Radio Elettra. Al ritorno da un viaggio nell’Ovest degli Stati Uniti mi misi subito al lavoro per creare delle stampe. Credo proprio che in quel momento sia nata in me la vera coscienza fotografica, la responsabilità, la vastità di orizzonti che la camera oscura dava allo scatto iniziale. Notte dopo notte, completamente da autodidatta, con una dedizione tale che non potevo essere altro che un fotografo.

E’ stata una fascinazione emotiva, d’istinto o era già un’attrazione intellettuale, estetica?
Ho pensato a questo diverse volte e nel tempo ho elaborato una sola risposta: entrambe. Sì, di sicuro il fascino e l’emozione sono state artefici del mio primo approccio. Poi, più mi addentravo nella materia ed approfondivo il mio linguaggio personale, più la fotografia aveva per me una forte spinta intellettuale, intima, creativa e si contrapponeva perfettamente alla mia condizione di allora in cui facevo il ragioniere. Aggiungo che sono un esteta per natura, con un’anima sempre protesa verso la spiritualità, verso una cultura visiva e poetica della quale la Fotografia, quella sincera, ne è la grande portavoce.

A quale incontro devi la tua passione iniziale? Con una persona, un fotografo, un’immagine, una mostra, un libro, un luogo, con il Caso?
Più che la passione iniziale, per me è stata fondamentale la successiva maturazione, la crescita mistica all’interno di un percorso che man a mano si stava delineando. E in questo devo dare merito alla relazione avuta negli anni, dal 1994 fino alla sua morte, con Mario Giacomelli. La sua presenza, all’inizio fortemente pregnante e molto spesso evocata nel mio lavoro, si è via via rafforzata verso un rapporto più funzionale alla mia personale ricerca. La nostra amicizia dava linfa a quella dedizione cui accennavo prima e, soprattutto, amplificava la visione introspettiva dell’opera, mi aiutava a dare forza nell’uso “altro” della fotografia e mi conduceva per mano nell’approfondimento dello spazio/tempo all’interno del perimetro della carta.

E’ stata una folgorazione immediata o una passione che ha avuto una gestazione più lunga, più meditata?
Credo, piuttosto, ad una concreta applicazione verso terre ancora per me inesplorate. La Fotografia ha creato in me lo stimolo della curiosità: stimolo verso un certo tipo di letteratura, stimolo verso un modo di osservare e scoprire l’arte. Non a caso il continuo bisogno di ricerca mi ha avvicinato a tutto il mondo dell’Arte Contemporanea, seminando in me quei germogli che, nel tempo, mi avrebbero portato alla mia condizione attuale, nella quale il lavoro di artista si amplifica in direzione di tutti i media. In sostanza, è come se con la Fotografia avessi avuto un mezzo con il quale viaggiare in territori più vasti e dai quali attingere per crescere come uomo, per darmi coscienza e forza nel mutare la mia condizione professionale: da ragioniere del passato all’artista di oggi.

Nella tua ‘genealogia fotografica’ personale hai avuto esempi di fotografi in casa, tra i parenti o gli amici, oppure sei entrato nel mondo della fotografia da solo, seguendo una strada tutta tua?
Sono entrato completamente da solo, da puro autodidatta della notte, con ore ed ore passate su libri e in camera oscura, rubando tempo al sonno. Una fuga in solitaria. E questa, indubbiamente, è stata la causa principale nell’aver percorso una strada tutta mia, una strada piena di libertà, ma anche di costanti insidie che hanno corazzato la mia struttura. Ora, infatti, posso trasmettere al prossimo una mia ferma convinzione: quella di perseguire le proprie visioni oltre ogni ostacolo, e le energie che ruoteranno intorno faranno il resto, creeranno le condizioni ottimali per la crescita di destini favorevoli.

Quale è stata la tua prima macchina fotografica e quali sono state le prime immagini che hai scattato? Le conservi ancora?
La mia prima macchina fotografica ufficiale, dopo ovviamente l’Agfa della cresima, è proprio quella del viaggio in Turchia: la Yashica FR con obiettivo Vivitar 35/70. Nel tempo sono passato ad un paio di Contax, sempre per il piccolo formato, e alla Pentax 67, che uso ancora oggi, per il medio formato. Per le immagini, come per tutto il resto dei miei appunti, sono un archivista maniacale: mi piace lasciare le tracce del mio percorso. Credo molto nella memoria, per dare corpo alla coerenza artistica e poter stilare con organicità l’identità del mio linguaggio.

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato per la prima volta il mondo attraverso un mirino?
Centralità, ecco cosa ho provato. La possibilità di delineare i contorni ed eliminare il superfluo mi dava una centralità di osservazione, una puntualizzazione sulla visione d’insieme e pertanto un accentramento dell’attenzione. Il mirino mi ha insegnato a concentrare lo sguardo e nel tempo mi sono reso conto che focalizzavo sempre più ed in misura circoscritta, prediligendo i dettagli ai panorami. Il paesaggio è via via sparito e al suo posto è subentrato il solo uso di tracce, di segni e forti contrasti di linee e forme.

Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato le prime immagini scattate da te? O cosa hai provato quando le hai viste affiorare in camera oscura?
A parte l’entusiasmo per la riuscita, che è sicuramente il primo passo che avviene in tutti, ho provato una forte consapevolezza nel dire: bene, ci siamo, è giunto il momento di andare oltre l’orizzonte. Le mie riflessioni diventavano realtà, i miei pensieri prendevano corpo, i desideri trovavano forza nell’uscire allo scoperto. Su tutto, visto il mio percorso di autodidatta, anche un pizzico di orgoglio che stimolava giorno dopo giorno la mia ricerca.

Quando hai capito che la tua passione iniziale si era trasformata in una necessità: quando la fotografia non è più stata solo un desiderio, ma è diventata un linguaggio?  
E’ stata la naturale conseguenza di quanto ho appena accennato. Francamente posso dire che per me la Fotografia non è stata mai “passione”. Fin dall’inizio ho perseguito dei risultati con un accanimento tale che della “passione” aveva ben poco. E’ stata sempre una questione di necessità interiore, di spinta continua nell’indagare l’animo per determinare un mio linguaggio, per far uscire a chiare lettere la mia identità. Per ottenere con ostinazione un nuovo alfabeto fatto solo di due colori, il bianco ed il nero, ho dovuto profondere continuamente me stesso, donare al tempo tutto il mio essere con perfetto affiatamento, nella convinzione che l’armonia di tale unione è la materia prima di cui sono fatte le mie opere.

Da Geo Tag Projet: Patmos Edition – N 37° 18’ 34.751”  E 26° 32’ 45.859”


Quale è stata la formazione, il percorso di crescita (studi, maestri, immagini, esperienze) che ti ha condotto dalle prime immagini al fotografo che sei oggi?   
Proprio in ragione della costruzione di una forte identità eclettica, ho sempre amato l’interazione fra le arti e la possibilità di farle confluire nel mio lavoro. Di conseguenza ho approfondito studi, oltre che in fotografia, anche in arte moderna e contemporanea, in architettura e design, in letteratura e musica. Gli incontri con maestri avvenuti nel tempo sono molteplici, come numerose sono le esperienze che hanno maturato la mia crescita. Tutto questo ha comportato un percorso dalle innumerevoli sfaccettature, con la costanza di una ricerca coerente ed unitaria. Il risultato, ad oggi, è che uso la fotografia in totale interazione con altri materiali. E’ essa stessa materia prima, ed applico il linguaggio acquisito a tutti i miei lavori: dalla costruzione di opere pubbliche alle sculture; dai quadri ai libri realizzati come pezzo unico; dai progetti fotografici a progetti architettonici e d’interni. In sostanza posso definirmi un uomo artista a tutto tondo, che opera in ogni direzione con il suo taccuino in bianco e nero, che lavora con ricerca e concezione linguistica costante, che naviga verso orizzonti infiniti con la macchina fotografica sempre al suo fianco.

Per ulteriori approfondimenti: www.massimilianoorlandoni.it

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