giovedì 26 gennaio 2012

Perché amo certe foto

Ho cinquantasei anni: è quindi verosimile pensare che davanti a me ci sia meno tempo da vivere rispetto a quello che ho già vissuto. Non dico sia tempo di bilanci, però credo sia legittimo buttare qualche sguardo all’indietro. E’ quello che mi capita di fare, da qualche tempo, sulla scia di queste parole di Natalie Goldberg (Scrivere Zen): «Da bambini siamo particolarmente impressionabili. E’ allora che il ritmo del linguaggio ci entra dentro.» Da quando le ho incontrate mi domando, ad esempio, quali parole, quali immagini mi hanno circondato e nutrito da bambino. Di cosa si è impregnata la mia infanzia, da portarmela ancora oggi addosso, o dentro, come una eredità involontaria?

C’è una parola che spicca su tutte e che tutte riassume: rabbia. Sono stato un bambino circondato dalla rabbia ed è lì che sono cresciuto. Nella rabbia sorda e rancorosa; nella rabbia incontrollata verso tutto e verso tutti: verso il caldo e verso il freddo, verso la povertà e la ricchezza; nella rabbia verso il sorriso e il versante dolce e bello della vita, come fossero nemici da cui guardarsi. Sempre. E questa rabbia aveva un suono, un ritmo ben precisi: quello dell’urlo, dei denti digrignati, della bestemmia, delle parole scagliate come sassi: per colpire, per ferire. Voci dal tono cattivo e violento, voci sconnesse dal rancore, come pavimenti malsani. La rabbia aveva anche i suoi colori: il pallore giallognolo dei volti, sfigurati dai litigi; il rosso rinsecchito del vino rovesciato sulla tovaglia bianca; il verde cupo della poltrona in pelle, dietro la quale mi rifugiavo per non vedere la rabbia. La rabbia aveva anche un suo spazio: la sala da pranzo, vuota, nella quale mi aggiravo, invisibile, rovistando con lo sguardo in mezzo alle tracce lasciate dalle liti, che proseguivano nascoste in altre stanze. Ero in cerca di silenzio.


Naturale che cercassi il silenzio, e la solitudine. Naturale che la solitudine sia poi stata l’antidoto con cui mi sono curato e protetto dalle rabbie. Sarà, forse, per tutto questo che amo le immagini spoglie, essenziali e silenziose. Immagini dove lo spazio accoglie – e dice – solo il vuoto, ma un vuoto amico, fedele. Immagini di solitudine, fatte per ospitare solo echi; per disperdere nel vuoto quelle urla lontane e gli odii e i rancori che mi hanno cresciuto.      

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