domenica 26 febbraio 2012

Appunti per una lezione sulla didascalia

In Valdossola, 2010


Quanto sono capienti le immagini fotografiche? Voglio dire: quanto di ciò che vediamo, sentiamo, immaginiamo trova spazio e accoglienza nella nostra inquadratura? e quanto, invece, va perso?

C’è sempre in fotografia una sorta di incompiutezza, che il fotografo affida allo spettatore per essere riempita dal suo sguardo. E’ il paradosso della fotografia: il linguaggio con il più alto tasso di vicinanza (somiglianza) al reale ha bisogno, per essere efficace, di evocare qualcosa che sta altrove: oltre la superficie, oltre le apparenza, oltre il tempo rappresentato nello scatto.

Ad esempio: nelle immagini di un luogo a noi caro, cosa resta delle nostre passioni, delle nostre esperienze o conoscenze, della nostra memoria in quella inquadratura? Forse per riempire questo vuoto, questa incompiutezza può essere utile rivolgersi a Proust:

Per farli rinascere, ora, mi bastava pronunciare quei nomi: Balbec, Venezia, Firenze, dentro i quali aveva finito per accumularsi il desiderio ispiratomi dai luoghi che essi designavano. (M. Proust, Dalla parte di Swann)

Parole che sembrano una teoria del titolo fotografico, della didascalia. Vediamo dove portano: se nelle parole è possibile recuperare parte di quella incompiutezza che l’immagine porta con sé, allora la didascalia posso farla funzionare come pronuncia evocativa di un luogo, di un volto, di un evento. Ecco, posso partire da qui, da questa “pronuncia” cui l’immagine fa da contrappunto visivo; posso cominciare dalla didascalia come supporto al ricordo, per trasformarla in supporto al senso. Come un brivido, una sterzata brusca, un dirottamento …    




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