giovedì 22 marzo 2012

Mappe e sceneggiature. Lo sguardo tematico

Emanuela Marenzi, Penombra (2012) 
Ho avuto occasione, nel corso di un laboratorio, di analizzare le immagini che alcuni fotografi avevano realizzato intorno a tre temi che avevano scelto: La strada, Comunicare e La penombra. E’ stato così che mi sono chiesto cosa significa  “assegnarsi” un soggetto da inseguire, indagare, illustrare.


Credo che scegliere un tema sia, prima di tutto, un modo per far emergere con maggior chiarezza le proprie passioni, idee e visioni interiori. Ma anche le ossessioni (come i freaks fotografati da Diane Arbus) o le paure (come la vecchiaia dei corpi offesi dal tempo e dalla vita ripresi da Mario Giacomelli in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi). Credo che scegliere un tema sia come fissare un perimetro intorno ad una porzione di mondo, per fornire allo sguardo coordinate che orientano il cammino. Ma è anche un confine che segna, escludendo altri soggetti, la parte di realtà che non amiamo o che non desideriamo affrontare con lo sguardo. Un tema è il perimetro che identifica la geografia di un progetto.

Una volta entrati in questo perimetro, cosa accade al  nostro sguardo? Cosa succede quando decidiamo di circoscrivere la nostra attenzione visiva ad un solo campo, per quanto generico come, ad esempio, La strada? A quali pericoli si espone, in questo modo, lo sguardo? Quali tecniche di lavoro possiamo mettere in atto per migliorare questa “visione vincolata”?

Scegliendo un tema predisponiamo lo sguardo ad accentuare la percezione verso un campo predefinito, una specie di “selezione anticipata” delle possibilità visive. E’ come se dicessimo alla coppia occhio-cervello: «Preoccupati solo di vedere strade e non dar peso al resto». E’ una tecnica mentale che ha il vantaggio di aiutare lo sguardo a non restare accecato dal flusso caotico delle immagini quotidiane: una tecnica contro la paralisi dell’attenzione, contro l’afasia visiva. La visione “tematica” trasforma i nostri occhi in mirini della mente puntati con più precisione sulle cose. 

Tuttavia è una tecnica che possiede anche un lato oscuro e scivoloso: con la “selezione anticipata” corriamo il rischio di nascondere alla curiosità visiva percorsi laterali, apparentemente “fuori tema”, che potrebbero rivelarsi, invece, fecondi. In un certo senso è come nascondere la polvere sotto il tappeto: sappiamo che c’è, ma scegliamo di non vederla. C’è il rischio, insomma, di trasformare lo sguardo attivo (che osserva, indaga, cerca, crea connessioni) in uno sguardo passivo (che si limita a “ricevere” le immagini che incontra), uno sguardo “appagato” dal tema stesso.

Come fare, allora, per non smarrirci in questa geografia che noi stessi abbiamo tracciato? Ad esempio, creando delle sceneggiature che scompongono il nostro soggetto, che rendono meno muta la vastità della mappa. Che cos’è una “sceneggiatura”? L’espressione è stata utilizzata, in fotografia, da Geoff Dyer (L’infinito istante. Saggio sulla fotografia) descrivendo il lavoro di Roy Stryker, coordinatore dei fotografi che lavoravano, tra il 1935 e il 1937, per la Farm Security Administration. Ai fotografi della FSA, impegnati a documentare e raccontare le condizioni di vita dei contadini e dei mezzadri ridotti alla fame dalla Depressione, Striker consegnava liste dettagliate (e poetiche, in  molti casi) di “tracce visive”. Queste “tracce” erano vere e proprie immagini pre-visualizzate che funzionavano da linee guida per lo sguardo e da storyboard per le narrazioni dei fotografi. Questa, ad esempio, è la “sceneggiatura” di Stryker per il soggetto «Estate»: Automobili affollate che escono in strada aperta. Benzinai che riempiono serbatoi di automobili decappottabili e cabriolet. Giardini rocciosi; parasole; ombrelloni da spiaggia; rive sabbiose con onde che si gonfiano dolcemente; onde spumeggianti che coprono di spruzzi barche a vela nell’orizzonte lontano. Gente in piedi all’ombra di alberi e tende da sole. Finestrini aperti sui tram e sugli autobus; acqua potabile da sorgenti o vecchi pozzi, punti ombrosi lungo gli argini, sole sull’acqua intorno; gente che nuota in stagni, fiumi, ruscelli.

Un altro esempio importante di questa tecnica della “sceneggiatura” è possibile ritrovarla, ancora oggi, nelle istruzioni che l’amico Filippo Crea dispensa ormai da anni sulle pagine della storica rubrica Compito a casa di Tuttifotografi. Sono istruzioni didattiche e al tempo stesso poetiche, marcate dalla sensibilità visiva di Crea fotografo. Ecco ad esempio la sua bozza di “sceneggiatura” per “I segni del tempo”: Sono le erbacce cresciute su dei binari dismessi, le finestre a brandelli di una casa diroccata. Sono in quel che resta di una statua senza tempo, di una barca lasciata a morire su una spiaggia, della custodia inanimata di un violino in soffitta. Sono la ruggine che divora un vecchio cancello, le rughe di un uomo carico di anni. Sono le pagine ingiallite di un vecchio messale, le ragnatele che avvolgono una libreria senza più cassetti, le insegne quasi illeggibili di un’osteria senza tempo. O quella per le “Immagini di città”: No alle cartoline illustrate. No alla Fontana di Trevi, no a Piazza San Marco coi piccioni, no alla Tour Eiffel, no ai mangiatori di fuoco a Marrakech. I nostri souvenir di viaggio teniamoceli per noi. Una città è anche nella folla dei pendolari vomitata da un treno di periferia. È nel vigile urbano alle prese con un automobilista, è nella coda dei compratori davanti a un negozio alla moda con i saldi. È nelle scale mobili di un grande emporio, è in certi manifesti elettorali o mercantili, è nel poveraccio incollato alla vetrina di una gastronomia di lusso. È nei mercati rionali, è nel baracchino del vecchio libraio.

Quelle parole: «Estate», «Segni del tempo», «Città»,  immense come continenti, davanti alle quali lo sguardo può sentirsi smarrito in una vertigine di possibilità, diventano a poco a poco palpabili, concrete: più intercettabili per lo sguardo. E’ questo il modo in cui, sotto l’aspetto semplice e innocente della lista, la “sceneggiatura” contribuisce a ridurre la vastità del soggetto a dimensioni più percorribili, strumento utile per impedire che la genericità del tema sfoci, come mette in guardia Crea, nella banalità di immagini raccolte vagando senza meta nei territori del Già Visto.




Una versione di questo articolo è stata pubblicata sulla rivista Infinito Istante (www.infinitoistante.it)



4 commenti:

S. ha detto...

Mi chiedo se così facendo, pre-immaginando una sceneggiatura non si precludano alla vista attimi/visioni che non essendo pre-calcolate si rischia di non vedere e così facendo di ottundere brandelli di sorprendente realtà.

compagnia dei fotografi ha detto...

@S. Certo, se la sceneggiatura e le pre-visualizzazioni sono vissute con rigidità il rischio c’è. Ma la sceneggiatura, come il copione teatrale, è una forma fluida, uno strumento morbido attraverso il quale passa il processo di trasformazione di un’idea. Per come la intendono Stryker, Crea (e anch’io) la sceneggiatura é solo una forma elastica e provvisoria di comunicazione che attende di realizzarsi nel linguaggio definitivo dell’immagine. E’ solo una traccia, un punto da cui partire per l’esplorazione visiva: non è la meta.

S. ha detto...

Allora forse è meglio considerarla un canovaccio, che può essere liberamente interpretato e soprattutto arricchito dall'attore/fotografo. Solo una traccia che indica una strada da seguire, ma non preclude la possibilità di percorrere anche sentieri trasversali. Credo occorra un certo allenamento da parte del fotografo per imparare a utilizzare al meglio la sceneggiatura... esattamente come avviene per un attore. Sembra un'ottima idea se ben impiegata e senza illudersi che la sceneggiatura sia all inclusive!

compagnia dei fotografi ha detto...

E' proprio così. E infatti sto lavorando a questa idea di "sceneggiatura-canovaccio" per dare forma ad una serie di esercizi per quello che chiamo il "training" (o allenamento) del fotografo.