sabato 5 maggio 2012

Fotografia d'inganno

Voglio parlare di un libro che contiene centinaia di foto: Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka. Non è un libro fotografico: è un romanzo in cui le foto sono solo accennate, qualche volta descritte con dettagli precisi, ma tutte richiedono al lettore di essere immaginate. Sono fotografie che nascondono centinaia di storie che Otsuko ha saputo intercettare e a noi aspetta il compito di saperle vedere ed ascoltare.  

Di che foto si tratta? Sono i ritratti dei futuri mariti che tante giovani donne giapponesi hanno stretto tra le mani mentre navigavano verso l’America, incontro a uomini che non conoscevano – se non in fotografia – e dei quali sarebbero diventate indifese e incolpevoli mogli.

Ho provato ad immaginare quelle stampe in bianco e nero, dai bordi smangiati e l’emulsione seccata in piccole pieghe rugose. Ritratti di giovanotti con gli occhi scuri, i capelli folti e la pelle liscia e perfetta. Ritratti di giapponesi emigrati in America da tempo in posa sul marciapiede, davanti a case di legno dal tetto spiovente con lo steccato bianco. Come se un bel giorno August Sander fosse sbarcato in qualche angolo di America con i suoi ritratti: frontali, eleganti e rigorosi di uomini davanti ad un praticello ben curato, appoggiati a una Ford Model T o in posa su una sedia dall’alto schienale rigido o con le mani giunte con compostezza e lo sguardo fisso nell’obiettivo.

Difficile scegliere tra quelle foto menzognere  di uomini con redingote grigie ed eleganti. Menzognere perché hanno raccontato il falso. Menzognere perché l’uomo ritratto non era lo sposo, ma il suo migliore amico. Menzognere perché molti di quegli uomini ritratti millantavano fortune inesistenti. Menzognere anche sull’età, perché spesso l’uomo della foto aveva almeno dieci anni di più. Fotografie d’inganno, che accompagnavano lettere altrettanto ingannevoli.

Mi affido al caso e provo ad immaginarne (ascoltarne) tre. La prima è il ritratto di un giovane dal mento forte, che l’ingenua Midori teneva in un minuscolo medaglione appeso al collo. E’ una foto che immagino senza le proporzioni del primo piano perché il volto è stato ritagliato – con parte delle spalle – da un ritratto a figura intera, ripreso da una certa distanza. Midori s’era innamorata di quel volto, senza immaginare che avrebbe speso il proprio matrimonio chinando la schiena sui campi di fragole, perché l’uomo della foto era solo un bracciante stagionale che non possedeva affatto una fattoria.

La seconda è il ritratto del futuro marito di Yoshiko: un uomo elegante in un completo tre pezzi, all’occidentale. Sulla nave Yoshiko custodiva la foto in una vecchia lattina di tè e ancora adesso, se chiudo gli occhi, mi sembra di sentire sull’emulsione ingiallita una traccia sottile di quell’aroma lontano. Anche questa foto ha ingannato Yoshiko, morta pochi giorni dopo lo sbarco a San Francisco per un colpo di calore, nei campi del Marble Ranch.

L’ultima non è il ritratto di un futuro marito. Provo ad immaginare un frammento di foto scampato al fuoco, dove è ancora leggibile -  a ridosso dei bordi bruciati – il ritratto in bianco e nero, colorato a mano, di un giovane pescatore, serio e sereno. Forse il fratello di Fusayo, rimasto in Giappone. Immagino che questo frammento sia tutto ciò che resta del rogo con cui i giapponesi d’America, per non essere accusati di spionaggio e tradimento dopo l’attacco a Pearl Harbour, bruciavano altari di famiglia buddisti, bacchette di legno, lanterne di carta, foto ricordo di parenti del villaggio (…) kimono nuziali di seta bianca e qualsiasi altra cosa potesse far pensare che avessero legami con il nemico.

Non so quale fortunato e immaginario colpo di vento ha salvato questo frammento dalla cenere e dall’oblio. Non così è stato per le vite di quelle spose venute dal mare e vittime degli inganni di una fotografia. Vittime dell’uso menzognero con cui le foto sono state spedite alle spose promesse, vittime della ingenua speranza con cui quelle giovani donne hanno guardato quei rettangoli di carta.

Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Torino, Bollati Boringhieri, 2012










2 commenti:

gialloesse.wordpress.com ha detto...

Le immagi non sono mai menzognere, occorre saperle leggere e certamente quelle donne che venivano dal mare non possedevano questa capacità. Come sosteneva Susan Sontag esse sono insomma più reali di quanto chiunque avesse supposto.

compagnia dei fotografi ha detto...

Bel problema hai sollevato: l'innocenza (presunta) della fotografia! Certo, le spose giapponesi hanno peccato di ingenuità (hanno letto e trasferito nelle foto i loro desideri), ma gli sposi, quelli no!, quelli hanno usato le foto per mentire. Tutto questo per dire che la fotografia è muta: siamo noi a farla parlare, facendole dire ciò che noi vogliamo che dica.
C'è un libro che parla della fondamentale ambiguità della fotografia: Un'autentica bugia, di Michele Smargiassi. Credo sia, ormai, una lettura indispensabile.