martedì 7 agosto 2012

Il fotografo e la sedia



E’ probabile che questo articolo farà arricciare il naso al cultore della Bella Foto, a chi considera la fotografia solo come manifestazione della necessità imperiosa di “esprimere se stessi”. O a chi, della fotografia, ha una visione granitica che non accetta sfumature. Il fatto è che certe riflessioni bisogna, comunque, affrontarle e allora tanto vale farlo partendo da zero, senza preconcetti. Alla fine può capitare che certe definizioni assumano contorni diversi, magari più ampi e più ricchi. Di cosa si tratta?

Vengo subito alle domande: non sarà che in molte cose il fotografo è più artigiano che artista? Non sarà che, in quanto prodotto artigianale, una fotografia funziona un po’ come una sedia: utile, comoda, solida e solo secondariamente (ma non necessariamente) bella?

Mi sono fatto queste domande leggendo un articolo che Ascanio Celestini aveva scritto sulla sua attività di narratore teatrale per Faberblog, il blog de Il Sole 24 Ore. Un articolo che ho “ruminato” e lasciato sedimentare per qualche tempo.

In un primo momento mi ero limitato a rinvenire una certa analogia tra l’attività del fotografo e quella del narratore:

 tutto sommato, il mio lavoro consiste nel raccogliere storie e raccontare storie. In mezzo, tra la prima e seconda occupazione, c’è quello che succede nella testa del narratore, nella mia testa, cioè in una specie di bottega artigiana”.

Pensavo: come il narratore, anche il fotografo – guardando il mondo – raccoglie storie (immagini) e poi le racconta (le mostra). Come il narratore, anche il fotografo – tra il momento della visione/raccolta e quello della narrazione/presentazione - vive un’intensa fase di elaborazione dei materiali accumulati. Basta ricordare quante scelte deve compiere: colore o b/n; focale; tipo di messa a fuoco; profondità di campo; taglio dell’inquadratura; qualità e temperatura colore della luce; tipo di stampa; impaginazione delle immagini, solo per citarne alcune. Ma non ero soddisfatto, perché in questa prospettiva l’attività del fotografo risultava limitata al solo campo delle scelte strumentali.

Così ho riletto l’articolo di Celestini, cambiando la messa a fuoco della mia attenzione, ed è apparsa lei, la sedia. In quel momento tutto è diventato un po’ più chiaro, perché attraverso la sedia ho capito che cosa fa il narratore-artigiano (e il fotografo):

Un artista cerca di scrivere un libro perfetto, di dipingere il miglior quadro del secolo, di eseguire una musica in maniera sublime. L’artigiano no. Costruisce una sedia e poi un’altra e poi un’altra ancora. Non le conta nemmeno. Non pensa di fare la sedia perfetta, la madre di tutte le sedie. Pensa ad approfondire la propria esperienza e a mettersi a disposizione del cliente. Una sedia è il posto dove mettere il sedere. Deve essere comoda, stabile, solida e possibilmente anche leggera e infine bella. Ma è probabile che la bellezza sia una condizione secondaria, se non del tutto inutile. L’artigiano pensa che (…) la sua opera attraversi tutte le sedie che costruisce nel corso del tempo. Sedie che dimentica perché dalla costruzione di esse accumula esperienza. Il suo lavoro è un flusso nel quale fa scivolare le sedie”.

Quello che mi mancava era la descrizione di ciò che avviene nella “bottega artigiana” del narratore e del fotografo, l’intenzione dei loro gesti. Da questa prospettiva i confini si sono modificati: come l’artigiano accumula sedie, così il fotografo accumula fotografie, ed esperienza. Come l’artigiano non pensa di fare la madre di tutte le sedie, allo stesso modo il fotografo pensa a scattare una foto e poi un’altra e poi un’altra ancora, mettendosi a disposizione del pubblico. Come l’artigiano costruisce una sedia che è, prima di tutto, utile e poi bella, anche il fotografo costruisce immagini che sono (o dovrebbero essere) prima di tutto leggibili, delle descrizioni del mondo al servizio dello spettatore e poi (ma non necessariamente) belle.

Grazie a questa definizione allargata mi è stato facile ripensare, ad esempio, all’accumulo delle foto di Parigi scattate da Atget, all’accumulo dei ritratti di August Sander, all’accumulo dei fatti di cronaca nera raccolti da Weegee, alla New York di Klein, all’epica del lavoro di Salgado, agli Zingari di Kudelka. Tutti lavori in cui i fotografi non hanno pensato alla singola (bella) immagine, ma a scattare una foto e poi un’altra e poi un’altra ancora, mossi dalla volontà di descrivere al meglio il mondo che volevano rappresentare. In altre parole, hanno mostrato immagini che erano prima di tutto comode da capire, e coerenti. Perché, parafrasando Celestini, il lavoro del fotografo è un flusso costruito nel corso del tempo, un flusso nel quale scivolano le immagini che raccogliamo ogni giorno.  


3 commenti:

S. ha detto...

Ahimè ci sono artigiani, poco artigiani e molto artisti che hanno realizzato o voluto realizzare la madre di tutte le sedie, che sono molto belle, ma non è detto siano comode. forse lo stesso vale per la fotografia...

marco ha detto...

eh-eh, a metà articolo mi son detto, adesso gli ricordo Atget ;) . Se penso agli esempi in particolare a Salgado, la sua impronta c'è in ogni immagine (proprio questo lo ha fatto detestare da alcuni e amare da altri). Concordo più in generale, alla fin fine il lavoro di un fotografo è un lavoro di accumulo. E in questo lo fa assomigliare all'artigiano. Sebbene mi convince parzialmente questa collocazione, visto anche l'incertezza semantica, ad oggi, di questo termine. Propendo per una componente artigianale, ma non mi è sufficiente per definire cos'è un fotografo (in realtà, chi siamo). Molto interessante però il percorso che hai fatto. Dovremmo discuterne a voce. A presto,
marco

compagnia dei fotografi ha detto...

@marco - Vero, sempre più difficle definire cosa è un fotografo (definirci, insomma). Io ci provo, come vedi, aggrappandomi a provvidenziali analogie. Cerco di capire la complessità evitando il più possibile definizioni categoriche e facendo ricorso alla nebulosa, ma confortevole, imprecisione del potere evocativo delle metafore. Soprattutto oggi che lo scatolone della fotografia contiene sempre più cose (dall'Autovelox all'Instagram alla stampa fine art e via dicendo) e non sempre è facile avere una prospettiva che le comprenda tutte. Figurati, poi, che questo articolo è solo la prima parte di una riflessione: a seguire ci sarà il tentativo di parlare del fotografo "un po' artista".
Anche a me piacerebbe riprendere a voce questo discorso (e anche gli altri che avevamo abbozzato)