Sono diventato fotografo perché
non ho potuto partecipare al funerale di mio padre. Sembrerà strano, ma è così.
Un giorno ho provato a guardare
indietro negli anni e mi sono reso conto che nessuno in famiglia era appassionato di fotografia, nessun familiare o
parente mi ha mai regalato la “prima macchina fotografica", nessuna
tradizione o esempio, a me vicini, da imitare. Anzi, sono cresciuto in una
famiglia con salda vocazione per i commerci e poco propensa alle faccende
d’arte. Eppure, nonostante tutto, c’è stato un momento in cui ho formulato con
chiarezza il proposito di diventare fotografo. Quel momento ha una data
precisa: sono diventato fotografo a nove anni, nell’aprile del 1964, quando mio
padre è morto e io ero da un’altra parte. Ecco come sono andate le cose.
Quando mio padre è morto io ero
lontano da casa, in uno strano ospedale in mezzo ai vigneti dell’Oltrepo.
Qualche medico, all’epoca, aveva decretato che per evitare che mi ammalassi di
tubercolosi (la malattia di mio padre) era necessario il mio ricovero in un “Preventorio”.
E a Villa Fiorita, un ospedale in
mezzo alle colline, attrezzato come un collegio (scuola interna, parco,
refettorio, camerate, assistenti e qualche medico, per lo più invisibile), ho trascorso
due anni della mia infanzia. A dire il vero non mi era ben chiaro di cosa fossi
ammalato. Io mi sentivo bene: studiavo, giocavo, mangiavo, dormivo e ogni tanto
(non troppo, per non cadere nella malinconia) pensavo al giardino di casa mia.
Pensavo a Maria Pia, la bambina bionda
dalla coda di cavallo di cui ero innamorato. Pensavo a mio padre lontano,
nascosto in qualche sanatorio di montagna e il cui volto iniziava, nel mio
ricordo, a confondersi, se non a svanire. Stavo bene, insomma, e passavo le
giornate aspettando che qualcuno si accorgesse della mia guarigione.
Mesi dopo quella domenica, in
novembre, sempre per decisione misteriosa di un medico invisibile, mi
dichiarano guarito e posso fare ritorno a casa. Dove tutto, però, era cambiato.
Del mio piccolo universo di un tempo non era rimasta traccia: non c’era più la
casa con il giardino, perché ci eravamo trasferiti dal nonno. Non c’era più
Maria Pia, perché i suoi genitori l’avevano riportata in Argentina, dove era
nata. Non c’era più mio padre.
Ma almeno di lui qualcosa era
rimasto, perché il nonno – mosso dal suo dolore di padre che perde l’unico
figlio – aveva incaricato un fotografo di riprendere tutti i momenti del
funerale. Per sé, credo, ma soprattutto per me che ero lontano, a Villa Fiorita.
Così, di tutto il mio piccolo
mondo di un tempo, l’unica cosa che rimaneva era un album di fotografie del
funerale di papà. Un album di foto incollate su fogli di carta nera, pesante, e
rilegati sotto una copertina di marocchino verde che mia madre ha conservato
accanto al suo album di nozze. E’ stato in quel momento, davanti quelle foto, che
mi sono chiesto, con l’innocenza crudele che possono avere solo i bambini: perché, perché di tutte le cose che amavo, e
che non ci sono più, hanno fotografato solo un funerale? Perché non mi hanno
fotografato anche la casa con il giardino? Perché non mi hanno fotografato
anche Maria Pia?
Davanti a quelle foto, ho giurato
a me stesso che nella vita avrei fatto di tutto per impedire alle cose che
amavo di svanire, che avrei fatto di tutto per trattenerne almeno una piccola
traccia, come l’oscuro fotografo del funerale di mio padre. Che avrei fatto della
fotografia la mia arma per impedire all’oblio di cancellare frammenti di vita
cui ero, e sono, legato.
1 commento:
Toccante. Intimo. Sensibile. Vero. Crudo. Bellissimo
Grazie. Davvero.
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