venerdì 19 ottobre 2012

Un desiderio di assenza

Fulvio Bortolozzo, Susa (1980)




Ho chiesto ad alcuni fotografi di raccontare perché sono diventati fotografi. La scintilla, l’incontro, l’evento o il Caso (perché no?) che hanno contribuito a spingerli ad abbracciare la Fotografia. Il racconto di una scelta passionale, prima ancora che intellettuale.

L’apparente innocenza della domanda non deve ingannare. A volte basta fare un passo indietro e provare a chiederci che cosa è la fotografia per ognuno di noi (invece di interrogarci sempre su che cosa è la fotografia “in sé”) per mettere in luce quelli che Fulvio Bortolozzo – negli scambi epistolari che hanno preceduto la pubblicazione di questo articolo – ha così ben definito: i “valori forti, essenziali, del fotografare”. Una domanda che prova a spostare la riflessione intorno al fotografico dall’Ontologia (la fotografia “in sé”, lo “specifico” fotografico) alla Poetica (lo “specifico” fotografico individuale o il bisogno di memoria privato o altro ancora).

E proprio a Fulvio Bortolozzo, fotografo torinese, spetta il compito di inaugurare questa serie di racconti. Ma non è bello far attendere gli ospiti e lascio, con grande piacere, la parola a Fulvio.         


Perché sono diventato fotografo.

Natale 1967, mi pare. Nella sala Giovanni Agnelli del Torino Esposizioni i coloratissimi banchetti organizzati per i figli dei dipendenti FIAT esibivano montagne di regali, divisi per età. Mi era già capitato di preferire il regalo che invece andava all'anno prima o a quello dopo. Quell'anno però mi misero in mano una scatola che conteneva la Agfa Iso Rapid I, una compattina rudimentale che si caricava con suoi rullini speciali e produceva insoliti fotogrammi 24x24mm. Era divertente. Finalmente potevo anch'io scattare, con parsimonia, qualche fotografia in bianco e nero da aggiungere a quelle che faceva papà al mare e durante le feste, poche anche le sue. Non era un appassionato, solo un padre contento della sua famiglia.

Passarono anni senza che altro accadesse. Solo scatti e rullini occasionali. Intanto iniziavo a disegnare fumetti e così convinsi i miei ad iscrivermi al Liceo Artistico. La fotografia divenne allora un ausilio per il disegno, ma nulla di più.

Sul finire degli anni Settanta, mentre frequentavo l'Accademia Albertina, un fotografo professionista torinese concesse al gruppo di studenti di cui facevo parte di andare nel suo studio al pomeriggio per svolgere delle esercitazioni didattiche. Notai in uno scaffale alcune copie di una rivista: Progresso Fotografico. Erano monografiche, solo anni dopo conobbi chi le aveva curate: Roberto Salbitani. Si parlava di fotografia americana, francese, arte, ecc. Il professionista le aveva già lette e me le donò appena le chiesi. Le divorai.

Nacque così il desiderio di provare tutto, fare tutto. Tutto quello che però riuscii a fare fu solo di acquistare nel 1980 una Lubitel 2 [con cui è stata presa la foto di apertura, Ndr], approssimativa copia sovietica in bachelite delle biottiche Voigtländer Brillant degli anni '30. Le abbinai treppiede economico, una livella a bolla e uno scatto flessibile. Da quel giorno, consumai vari rulli facendo fotografie di formato 6x6 in bianco e nero, prendendo scrupolosamente nota di tempo, diaframma e distanza di fuoco.

Firenze, autunno del 1981, piazza Santa Croce. sono in licenza premio e da poco sto seduto davanti alla statua di Dante per prenderne uno schizzo a penna sul mio blocco d'appunti. Mentre disegno, un pensiero si affaccia insistente. In fondo, cosa m'interessa veramente di ciò che ho davanti? Non quello che ne ricavo sulla carta, ma proprio quello che osservo, così come lo vedo, senza aggiungere o togliere niente. Vorrei portarmi via la statua com'è. Un irreprimibile desiderio di assenza, di togliermi di mezzo per lasciare che le cose apparissero in immagine liberamente come le percepisco, nulla di più, nulla di meno. Una fuga dal linguaggio grafico perché troppa era la mia curiosità vorace del mondo.

Inoltrandomi negli anni Ottanta presi a leggere regolarmente le riviste di settore e iniziai a frequentare la libreria Agorà, che vendeva molti ed eccellenti libri di fotografia, anche internazionali, e dove venivano esposti fotografi sia importanti sia emergenti. Fu lì che acquistai un libro fotografico fondamentale per me. Si trattava di "Kodachrome" di Luigi Ghirri. Già conoscevo ed apprezzavo l'opera di Franco Fontana, ma con Ghirri vidi che i concetti potevano farsi fotografia e compresi che si poteva fotografare, si poteva trattenere traccia verosimile delle cose, senza dover rinunciare al proprio modo di pensarle, anzi rendendolo ancora più forte e consapevole.

Fulvio Bortolozzo, Istanbul (2011)


Da quel giorno, prima impercettibilmente, poi in modo sempre più incalzante, l'impulso di fare della fotografia la mia professione prese il sopravvento e divenne infine realtà. Con il nuovo secolo, concentrai l'interesse sulla fotografia come strumento di analisi critica, usandola in prevalenza nell'osservazione dei luoghi. E siamo all'oggi.

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