lunedì 21 marzo 2011

Succedono tante cose quando guardiamo

L'occhio di Hunain ibn Ishaq

Succedono tante cose quando guardiamo. Succedono nella nostra mente sollecitata dallo sguardo. Ci orientiamo nello spazio, misuriamo distanze, valutiamo direzioni e profondità. Accumuliamo informazioni e impressioni sui lati dell’oggetto che lo sguardo in movimento raccoglie. Immagazziniamo suoni e odori che l’esperienza visiva porta con sé. Oppure cerchiamo di riconoscere ciò che entra nel nostro campo visivo, nel tentativo di ricondurre al noto ciò che ci appare sconosciuto. O ci sforziamo di capire, fin dal primo colpo d’occhio, se un volto sconosciuto ci è ostile od amico. E succede anche che, all’improvviso, riemergano immagini (o suoni o parole o profumi o gesti) viste chissà quando: è la nostra riserva di memorie che si attiva e genera immagini interne che incontrano e si mescolano, come colori d’acquerello, alle immagini esterne. E tante altre cose ancora. Percepiamo insomma, apparenze e ci sforziamo di raggiungere un qualche tipo di comprensione, anche se talvolta capita che, come dice John Berger, “di fronte al mare, a un tramonto, a un semplice albero, a dei fiori di campo o a una cascata, ci si accorge che si sta guardando qualcosa che non coincide con ciò che si ha davanti agli occhi, che va oltre”.

Allora mi domando: cosa resta, di tutto questo, nell’atto fotografico? Cosa rimane impresso in quel rettangolo di carta (o sullo schermo) che chiamiamo immagine fotografica? Quale luce o inquadratura è in grado di veicolare tutta questa ricchezza di cui lo sguardo è dotato?

Mi soccorrono, almeno in parte, queste parole di Renzo Piano che descrivono, con rassegnata malinconia, il tasso di inadeguatezza dello sguardo (e della rappresentazione) davanti alla comprensione delle cose:  “Ci sono visioni bellissime di città, di strade, quartieri, piazze, così piene di luce, di bagliori, di energie, di vita, di colori, di suoni che mi sfuggono nel momento stesso in cui tento di afferrarle. Le braccia, ahimè, sono troppo corte”. Allo  stesso modo, credo che anche la fotografia abbia “braccia troppo corte” che lasciano sfuggire residui di realtà, “braccia troppo corte” per abbracciare e contenere la pienezza e la ricchezza dello sguardo. Come se la fotografia portasse in sé un sentimento di incompiutezza, la malinconica consapevolezza che qualcosa, fatalmente, è rimasto fuori dall’immagine. Ed è contro questa incompiutezza che la fotografia, la grande fotografia, cerca di farsi strada: a colpi di indizi, di tracce, di suggestioni per ridare al lettore un’illusione di pienezza, di densità.

1 commento:

M. Dick ha detto...

... situazioni, umori, conoscenza,esperienza ecc ... sono tutto ciò che ci permette di vedere cose differenti da ciò che sono in realtà, un po come il pensiero di John Berger, da te citato. Certo è che occorre una certa consapevolezza, essenziale al pensiero ...

http://immaginaemozioni.blogspot.com/2010/12/frammenti.html

Certamente il sentimento di incompiutezza è presente, proprio perchè è impossibile mettere in un immagine tutto il nostro mondo, di quell'istante; fermare in un solo fotogramma quell'energia che divampa dentro di noi, quell'insieme di memorie sfocate ed emozioni, che si accavallano per prevalere l'una sull'altra.
L'llusione di pienezza, che potremmo avere di fronte ad un immagine, è solo un fatto personale, una combinazione di eventi, umori e situazioni, che mutate, di fronte alla stessa immagine, darebbero un effetto differente. Le mie braccia, per quanto lunghe possano essere, non potranno mai abbracciare tutto ciò che la mia "visione" produce, per cui non resta l'immaginazione dell'osservatore.

http://immaginaemozioni.blogspot.com/2010/11/limmagine-di-me.html