giovedì 17 febbraio 2011

Inquadratura latente


P. Greenaway, I misteri del giardino di Compton House (1982)

  
Continuo a chiedermi se la distinzione tracciata da Ghirri (la coppia fotografo passivo/fotografo attivo) è sufficiente a rendere conto di come stanno davvero le cose nel complicato universo fotografico. Mi accorgo, infatti, che in quella rigida catalogazione molti aspetti della fotografia possono non trovare adeguata sistemazione. A turbare queste meditazioni è arrivato il ritrovamento, nel ricchissimo (per metodo e risultati) libro di Geoff Dyer, L’infinito istante. Saggio sulla fotografia, di un’altra categoria: quella dei fotografi inconsci, definizione da attribuire, secondo quanto riferisce Dyer, al grande Walker Evans: “Walker Evans diceva che uno dei suoi «argomenti preferiti» riguardava l’essere «inconsciamente fotografi» da parte di scrittori come James Joyce e Henry James.” 

Dyer non chiarisce cosa dobbiamo intendere per “inconsciamente fotografi”. Lo lascia solo intuire. Fornisce, invece, sempre richiamando Evans, il caso di Walt Whitman quale esempio di uso (letterario) conscio della fotografia: «In queste Foglie d’erba ogni cosa viene fotografata letteralmente» e cita questi versi  “Guardate nei miei poemi le solide, vaste città dell’entroterra, con strade lastricate, edilizi di ferro e pietra, incessanti veicoli e commercio,/ Guardate le rotative a vapore, dai molti cilindri, guardate il telegrafo elettrico che valica il continente (…)/Guardate la robusta e rapida locomotiva che, ansimando, s’avvia ad emettere il fischio del vapore ” definendoli “una lunga didascalia in un enorme catalogo di fotografie”. 

Questo è tutto, ma per quanto esile possa sembrare questa traccia, per me il sasso è stato lanciato e così ho iniziato ad inseguire la suggestione di quell’idea, che si è allargata come cerchi sulla superficie dell’acqua.

Per prima cosa, mi sono chiesto quando e come io sono inconsciamente fotografo. Da fotografo tendo a guardare la realtà come ad un serbatoio di immagini potenziali, una specie di soggettario infinito e caotico. Questo significa che alla visione ottica sovrappongo (spesso senza apparente controllo cosciente) una visione mentale fatta di inquadrature fittizie, valutazioni della luminosità,  possibili relazioni tra soggetti, probabili narrazioni, immagini conosciute che riaffiorano: ma questo è l’armamentario di ogni (buon) fotografo. Ciò che, invece, la mia sommaria autoanalisi ha rivelato con sorpresa è che questo atteggiamento è in vigore molto più spesso di quanto credevo e, soprattutto, in situazioni impensate. Mi sono accorto, ad esempio, che leggo da fotografo: le annotazioni a matita che lascio di continuo sui margini dei libri altro non sono che visualizzazioni fotografiche, inquadrature interiori che attivo e che aiutano a far emergere un sottotesto visivo. Mi sono reso conto che quando leggo assumo, quasi senza volerlo, un punto di vista fotografico, una prospettiva sulle parole: inquadro, valuto i piani prospettici, cerco di definire lo spazio e dispongo in scena i personaggi o gli oggetti, immagino la luce. Ritornando su molte delle annotazioni prese nel tempo ho così scoperto di essere stato (inconsapevolmente) attratto da immagini di altri scrittori inconsciamente fotografi. Ne riporto alcune, a campione:
    
“Kees non aveva voglia di dormire. Andò ad affacciarsi alla finestra, o per meglio dire all’abbaino, e lasciò errare lo sguardo su un paesaggio straordinario: in lontananza prati ammantati di neve, poi rotaie, fabbricati, travi di ferro, ammassi confusi del materiale di una grande stazione, vagoni senza locomotiva che si muovevano piano, locomotive senza vagoni che segnavano rabbiose il passo, fischi, grida, e sparuti alberi sfuggiti al massacro, che disegnavano mesti il nero viluppo dei rami contro un cielo diaccio.”  (G. Simenon, L’uomo che guardava passare i treni)

“Una linea rossa sul bianco della neve,/una preda ferita/che zoppica” (A. Kiarostami, Un lupo in agguato)

“… i berretti scarlatti dei dragoni, il panno di una bandiera rossa abbattuta, e le tracce di sangue che si allungavano sulla neve in rivoli e gocce rossastre.” (B. Pasternak, Il Dottor Živago) 

Ma ecco la sorpresa. Cosa hanno in comune, ad esempio, queste tre immagini oltre alla temperatura colore? Sono tutte scene invernali, in cui la neve determina la dominante principale; Kiarostami e Pasternak, poi, condividono anche il medesimo contrasto cromatico bianco/rosso. Ma non è solo questo: il testo di Dyer fornisce un’illuminazione nuova per leggerle e scorgere in filigrana una specie di “inconscio fotografico” che affiora dalle profondità del sottotesto. In Simenon, che è stato anche fotografo dilettante, il “fotografo inconscio” agisce attraverso l’utilizzo del “mirino naturale” rappresentato dalla finestra: tutto il paesaggio ritratto è visto attraverso la cornice di un abbaino. In Kiarostami, regista, poeta e fotogrofo, la selezione dei pochi, essenziali elementi che compongono i versi nascondono, come una sinopia d’affresco, certe sue fotografie di paesaggi invernali. Per quanto riguarda Pasternak,  non so che rapporto avesse con lo strumento fotografico, ma certo mi è difficile, ora, non scorgere nel montaggio dei soggetti fortemente simbolici e allusivi presenti in scena (berretti scarlatti; panno di una bandiera; rivoli e gocce di sangue sulla neve) un’eco delle teorie del montaggio e dell’inquadratura di S. Ejženstein. E annovero anch’io, pescando tra le mie annotazioni, un esemplare di utilizzo (letterario) conscio della fotografia: la citazione dell’opera di Bill Brandt da parte di Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo per descrivere l’esuberanza fisica della vedova Roscio (“… mentre il suo corpo nudo, e certe parti del suo corpo, scorrevano e si dilatavano in prospettive simili a quelle che il fotografo Brandt sa ossessivamente svolgere.”) Un esempio folgorante non solo dello stretto legame tra parola e immagine (fotografica) in Sciascia, ma soprattutto del fatto che qui la fotografia è diventata, a tutti gli effetti, materiale narrativo.

A questo punto provo a tracciare un primo perimetro intorno a ciò che Dyer aveva solo accennato. Cosa può significare “essere inconsciamente fotografi”? Può voler dire, ad esempio, che nel nostro armamentario comunicativo è presente, in modo sotterraneo, anche la modalità di visione del mezzo fotografico. Può voler dire che,  anche se non praticata, la fotografia stazione nella borsa degli attrezzi di scrittura al pari di una figura retorica, di un incipit, di una similitudine (come nel caso di Sciascia). Da questa prospettiva gli esempi citati possono essere letti quasi come una ecfrasi, cioè la descrizione verbale di qualcosa che è stato percepito o immaginato (in modo più o meno consapevole)  secondo il modo che la fotografia ha di affacciarsi sul mondo: l’inquadratura. Quella che agisce, insomma, sembrerebbe una inquadratura latente.

Ma non è finita qui: i cerchi sull’acqua si vanno allontanando sempre più dalla riva. Come definire, ad esempio, le immagini che provengono da tempi in cui la fotografia non era stata ancora annunciata? Posso ancora parlare di “inconscio fotografico” per Le Affinità elettive di Goethe (1809) o per gli haiku di Konishi Raizan (1653-1716) e di Itō Shintoku (1653-1716) ?

“Carlotta accolse il marito sulla soglia [della capanna di muschio] e lo fece sedere in modo che, attraverso la porta e le finestre, egli potesse abbracciare con un solo sguardo le diverse prospettive che mostravano il paesaggio quasi come in cornice”. (Goethe, Le Affinità elettive) 

“dalla porta di dietro/nel brodo freddo il riflesso/della macchia di bambù” (Konishi Raizan)

pioggia:/attraversa il mio cancello/un mazzo di iris” (Itō Shintoku) 

In questi casi potrei forse parlare, per empatia con Dyer, di fotografi inconsapevoli che frugano tra i “fotogrammi” della propria memoria di spettatori della vita senza ancora sapere cosa sia un fotogramma. Tuttavia, quello che mi sembra emergere da tutti gli esempi fin qui citati è che esiste nell’uomo, sia che appartenga alla civiltà del quadro o dello schermo o a quella del dislpay, una modalità di visione legata all’idea di cornice, senza distinzioni di latitudine tecnica. In altre parole, ho il sospetto che ogni uomo abbia (non so se innato o culturalmente indotto) un bisogno di traguardare la realtà, di guardare attraverso: un bisogno quasi fisico di inquadrare, anche solo mentalmente, la vastità del visibile per renderlo più sopportabile e, magari, più comprensibile. Il bisogno di una regola visiva, più istintiva che consapevole, che aiuti a selezionare dal flusso caotico del quotidiano porzioni di realtà che rassicurino lo sguardo, così da potersi proteggere da una visibilità eccessiva, un po’ come quando cerchiamo riparo per gli occhi abbagliati da una luminosità troppo invadente. Una inquadratura latente, che agisce come inconscio collettivo, per mettere ordine, come diceva Ghirri, nello spazio e nello sguardo.

4 commenti:

Giulio Nerographer Baldi ha detto...

Seguendo gli stessi cerchi sull'acqua provocati dal sasso che hai lanciato mi domando se le tue riflessioni non siano collegabili alle teorie sui Sistemi Rappresentazionali. E' incontestabile la veridicità della tua analisi in cui io stesso mi riconosco, ma siamo realmente sicuri di poterla riferire ad ogni uomo? Facendo riferimento alle teorie sopracitate, quanto hai affermato può essere vero solo per alcuni individui ma non per tutti. Dalle tue parole e dagli esempi degli autori che hai riportato emerge una prevalenza percettiva di tipo visivo che porta, noi e quegli uomini, ad essere inconsciamente fotografi. E' così che scrittori ante-fotografia (come Goethe) riescono, con le loro parole, a descriverci una vera e propria inquadratura fotografica mentale della realtà. La domanda che ora mi pongo è: in quale modo una persona che privilegia il sistema rappresentazionale cinestetico o auditivo “vede” e “inquadra” la realtà? Partendo dal presupposto che i 3 sistemi rappresentazionali (visivo, auditivo, cinestetico) coesistono con percentuali di influenza diverse in ognuno di noi, mi chiedo se una persona principalmente cinestetica o auditiva inquadri la realtà in maniera più “povera” rispetto ad una persona principalmente visiva. E, ribaltando la domanda, mi chiedo come io stesso o una persona principalmente visiva ascolti i suoni o percepisca sensorialmente la realtà. In prima analisi (auto-analisi) mi verrebbe da considerare vero il fatto che una persona che privilegia un canale rappresentazionale diverso da quello visivo tenda, inconsciamente, a vedere la realtà in maniera più povera; dal punto di vista visivo naturalmente. A tutto questo, sempre basandomi sulla mia personale esperienza, aggiungo una condizione. La condizione è quella evolutiva. Ovvero l'innata e naturale possibilità di ogni uomo di evolversi imparando innanzitutto a capire in quale modo siano distribuiti i sistemi rappresentazionali in sé. Una volta capita questa distribuzione ogni singolo individuo può coscientemente applicarsi per “educare” i sistemi rappresentazionali più deboli andando quindi ad aumentare le sue possibilità percettive della realtà. Ammesso che queste mie considerazioni trovino riscontri anche in chi legge sarebbe interessante capire come e in che modo i sistemi rappresentazionali influiscano (in base alle inclinazioni percettive dei fotografi) nella realizzazione delle loro immagini.

Giulio Baldi

compagnia dei fotografi ha detto...

Vero, il tuo commento amplia ulteriormente i cerchi sull’acqua e pone una serie di interrogativi che raccolgo volentieri perché sono, tra l’altro, materia di altri progetti presenti nel mio cantiere. I tuoi cerchi, però, sono tangenziali rispetto a quelli tracciati da me e per questo richiedono, per essere osservati, un’altra prospettiva.

Il tuo intervento introduce concetti che, se non erro, provengono dalle teorie dei Sistemi Rappresentazionali definiti dalla PNL (Programmazione Neuro Linguistica), dove il sistema visivo, il sistema auditivo e quello cinestesico sono i fondamenti dei modelli con i quali l’uomo crea le proprie rappresentazioni del mondo. E’ un perimetro molto più ampio rispetto a quello che avevo, più modestamente, tracciato. Io ho volutamente isolato il solo modello visivo prima di tutto perché le connessioni tra i vari sensi (specie in fotografia) aprono una serie di domande che richiedono uno spazio ben più ampio di un semplice articolo di blog (ma non è detto che in futuro …). In secondo luogo perché, nel mondo dei "vedenti", la visione – certo, mescolata ad informazioni di natura sonora, tattile, olfattiva, cinetica - è comunque il canale privilegiato per l’acquisizione di informazioni. Sarà poi il cervello ad elaborarle come meglio crede o secondo necessità, anche sulla base – come tu dici - del peso specifico di cui i nostri sistemi sensoriali personali sono dotati. Le mie riflessioni, quindi, prescindevano dalla “percentuale di influenza” di un sistema percettivo sull’altro e non facevano distinzioni quantitative (una visione più o meno “povera”), ma assumevano lo sguardo come il canale d’informazione che sta, come dire?, in prima linea rispetto agli altri e riferibile ad ogni vedente.

Quanto alla questione sul modo in cui “una persona che privilegia il sistema rappresentazionale cinestesico o auditivo vede e inquadra la realtà” devo dire che è materia davvero intrigante e da approfondire. Anch’io mi domando, ad esempio, in che modo Pina Bausch vedeva/pensava le geometrie delle sue coreografie o in che modo Ferran Adrià vede/pensa le combinazioni di sapori dei suoi piatti. In altre parole: le arti che si sviluppano nello spazio e nel tempo, quindi al di fuori della bidimensionalità dell’inquadratura, non sono visivamente più “povere”, ma hanno un loro specifico modo di trasformare l’energia cognitiva e creativa dello sguardo in altre energie. E cosa accade durante questa migrazione credo sia un mondo che vale la pena di indagare. Grazie per il tuo contributo.

About A Photo ha detto...

Essere inconsapevolmente fotografati è una delle cose più affascinanti al mondo

giallorock.splinder.com ha detto...

Quando ero bambino si giocava per strada, davanti casa o poco più lontano, e il mondo aveva un'altra forma( particolarmente nelle periferie ). Le case erano basse, coi cortili. Le strade poco frequentate da mezzi meccanici e c'era tanto spazio verde a portata di mano. Molto spesso sparivo, mi allontanavo dai compagnetti e mi isolavo da qualche parte dove nessuno poteva disturbarmi per guardare il mondo. Stavo ore ed ore (fin quando si faceva buio e mia madre preoccupata veniva a cercarmi )a guardare attraverso un coccio di vetro o un invilucro colorato di caramella o qualunque dispositivo riuscivo ad inventarmi. Oppure, quando proprio non avevo nulla a portata di mano, mi mettevo a testa in giù, appeso ad un ramo o un muretto, e guardavo il modo sottosopra.