lunedì 11 ottobre 2010

Indizi, memorie, identità

Ziyah Gafic, Quest for identity
Di altra natura, ben più drammatica rispetto a quelli di Boltanski descritti nella nota precedente - sono i reperti del grande progetto Quest for identity del fotografo bosniaco Ziyah Gafic. Da due anni Gafic fotografa gli oggetti personali rinvenuti nelle fosse comuni dove sono state anonimamente sepolte le vittime dei massacri eseguiti dalle truppe di Ratko Mladic. Destinazione delle foto sarà la rete (www.Quest.bo, al momento non ancora attivo), per essere riconosciute o, meglio, per poter risalire tramite loro all'identità dei proprietari scomparsi.  

In tutto questo due cose mi colpiscono. La prima riguarda le immagini (un piccolo campione è sul n. 19 di settembre di Wired, ma ne ho trovate anche in questo blog inglese). Formalmente si tratta di still-life composti con rigorosa semplicità: ritratti di umili oggetti quotidiani (posate, banconote, occhiali, chiavi, orologi, spazzolini da denti) o affettivi (Polaroid dai bordi infangati o bruciati e dai colori che virano al giallo). Le scelte di ripresa sono neutre: il punto di vista zenitale; la luce morbida, senza ombre; lo sfondo: un anonimo pannello grigio che si ripete in tutte le immagini. Altrettanto neutra la didascalia: una sigla, che corrisponde al numero con cui l' International Commission on Missing Persons cataloga le ossa ritovate e il luogo del rinvenimento. Insomma, tutti i dispositivi di enunciazione adottati concorrono a non disturbare la riconoscibilità del soggetto. Come se Gafic si fosse imposto  la regola prevista dalle norme per la  produzione di foto-tessera destinate ai documenti di identità: ridurre al minimo la possibilità di inquinare l'identità del soggetto. Mi rendo conto, improvvisamente, che il progetto di Gafic trasforma le foto (degli oggetti personali) in documenti di identità di un Soggetto (persona) scomparso; che il suo è un atto fotografico carico di pietas e di forza morale con cui la fotografia diventa anche strumento capace di dare identità al mondo, una qualsiasi, magari non perfetta, ma pur sempre identità, indispensabile alla memoria. Allora mi sono chiesto, e chiedo a chi vorrà leggere queste righe, quante e quali altre immagini, tra i miliardi di fotografie scattate, sono - anche in senso metaforico - altrettante identità del mondo, o anche soltanto tentativi per fornire una identità possibile a corpi, volti, storie, gesti, luoghi?

L'altra cosa che mi colpisce è il luogo scelto da Gafic per la trasmissione delle immagini: la rete, trasformata in un'immensa bacheca su cui appendere queste tracce, lasciate per ridare identità a qualcosa, a qualcuno. L'operazione di condividere informazioni visive, di per sè, non è nuova. Penso, ad esempio, ai ritratti pubblicati dai giornali per facilitare il ritrovamento di familiari soppravvissuti all'Olocausto; oppure, in epoca più recente, ai pannelli allestiti nei giganteschi campi profughi in Zaire, sui quali i Tutsi in fuga dal Ruanda appendevano le foto dei familiari scomparsi, nella speranza che altri rifugiati, intercettandole, potessero fornire notizie, di qualsiasi natura. Ma il punto che mi colpisce sta proprio qui, nell'idea che, in fondo, tutto il mondo possa essere un immenso campo profughi e che la fotografia, con le sue pratiche, lo attraversa non solo con funzioni di rappresentazione, ma anche come ricerca di identità perdute. 

In fondo a tutto questo, mi domando se non ci sia, magari, un po' di spazio per tentare un capitolo di storia della fotografia come storia delle identità perdute o negate (clandestini, rifugiati, apolidi, orfani, emigrati, paria e minoranze di ogni genere ...); o per dar vita ad un progetto fotografico da realizzare attraversando, con sguardo meno inquinante, il campo profughi del mondo.

   

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